martedì 28 gennaio 2025

Una poesia di Silvia Cozzi: "L'ultimo viaggio"

 

L’ultimo viaggio  

Partirono,

 un lungo viaggio senza più ritorno.

 Il treno nella notte sferragliava.

 Stretti, stipati, cose senza nome,

 mani contratte attorno a un'illusione.

All'orizzonte una sbiadita alba,

 confusa in una spessa e fitta nebbia

 e quella stretta che dentro attanaglia,

 che stringe il cuore in una morsa fredda.

Solo un sorriso pieno d'innocenza,

 limpidi occhi a supplicare amore,

 di bimbi che non sanno che la morte

 è lì in agguato e semina terrore.

Afflitte madri dalle braccia smunte,

 li avvolgono in un disperato abbraccio

 pregando un Dio che al loro sguardo sfugge,

 cercano nella fede quel coraggio

 per dare un senso a quel grottesco andare.

 Non ci sarà la vita ad aspettare,

 né giorni nuovi per scaldarsi al sole,

 ma solo gelo e un pianto di dolore.


Silvia Cozzi

Una poesia di Maria Felicetti

 

Andavano sui treni senza meta,

pigiati come gli acini nei tini,

depauperati, inermi burattini

di un dio che gioca a dadi con la creta.

Andavano bambini, donne, anziani

come fuscelli al vento dell'orrore

tra spettri d'uomo senza alcuno onore

per obbedire a piani folli, vani.

Andavano nei campi della morte

oltre le sbarre di un nero cancello,

ignari come pecore al macello,

accomunati da un'amara sorte.

Andavano in silenzio in fila indiana

nell'ombra che nel giorno s'allontana.


Maria Felicetti

Tre poesie di Ester Guglielmino


Dovremmo interrogarci sopra l'odio,

sul suo seme amaro 

che germina per strada,

sul disumano che piove 

agli angoli del cuore,

mentre la gente parla,

distratta, dell'inverno 

che stenta ad arrivare,

dovremmo sdraiarci sulla terra

conquistarci dal basso

una verticale verso il cielo,

rintracciare la musica 

che fa maturare le radici,

farne un canto di vita

che dia fiato all'umano.


*

Omnia vincit amor,

precipitarono dal cielo

queste parole ubriacate

di mistero, diventarono

nuvola e pioggia, crepitare 

sfuggente di torrente, 

s'innervarono nella roccia, 

ridivennero sorgente. 

Omnia vincit amor

e s'inventarono dei ed eroi, 

utopie sacre e miti universali,

parole temprate col fuoco

vivo degli umani, a spiegare 

come e perché permane 

un brillio d'eterna luce,

dentro il fiato, oltre il male.


*

Mi comprime la testa

questo futuro orizzontale,

questa linea che precipita

e s'inabissa sotto i piedi,

questa parola che sventola

come una bandiera e si svuota

di colori a poco a poco,

diventando solo tutta bianca 

o tutta nera; mi disorienta 

quest'inabilità dell'essere 

vivo davanti all'altro vivo

e mi trapassa i timpani

questo stridìo acuto

che attraversa mondi lontani 

e paralleli, dove 'per sbaglio'

si uccidono i bambini,

mi feriscono i pensieri 

questi occhi sempre chiusi

sul senso inverso del divenire 

disumani, eppure li guardo 

dritti da una vita, per ritrovarci 

con la tua - anche la mia ferita.


Ester Guglielmino


martedì 21 gennaio 2025

Una poesia di Emanuela Sica: "E' lento il declino dei cristalli"


 …è lento il declino dei cristalli

a increspare di neve il cuore

nella 𝑠𝑡𝑎𝑔𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑒𝑙 𝑏𝑖𝑎𝑛𝑐𝑜𝑠𝑝𝑖𝑛𝑜
fermo in questo banco di nebbia
figlio di un tempo notturno
di cui non scorgi il confine
E tu che hai gli occhi
sfiancati dalle assenze
di quelle cose che sapevi essere tue
senti l’eco delle suppliche
a fendere in avanti i passi
muoverti per aprire un varco
oltre il confine dell’ora
Ma a cosa servirebbe liberarti
se il mondo è imploso?
Solo il volo della capinera
cuce l’aria tremula dell’alba
nel canto della vita
che si riveste di luce
e forse ritorna

Emanuela Sica

domenica 19 gennaio 2025

Una poesia di Cortazar, "Il bambino buono"

 

Non saprò slacciarmi le scarpe e lasciare che la città mi morda i piedi,

non mi ubriacherò sotto i ponti, non commetterò errori di stile.

Accetto questo destino di camicie stirate,

arrivo in tempo al cinema, cedo il mio posto alle signore.

Il lungo sregolamento dei sensi mi sta male, opto

per il dentifricio e gli asciugamani. Mi vaccino.

Guarda che povero amante, incapace di mettersi in una fontana

per portarti un pesciolino rosso

sotto la rabbia di gendarmi e bambinaie. 


Julio Cortazar

Di Alessandro Dehò, sull'Epifania

 (Matteo 2,1-12)

Epifania 6 gennaio 2025


Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme e dicevano: «Dov'è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo».


È tutto qui,

tu che nasci,

e noi che accettiamo di lasciarci alle spalle il nostro oriente,

noi finalmente disorientati,

noi che adesso crediamo nelle tracce seminate da polvere di stelle antiche

come un testamento,

noi che non abbiamo più dubbi,

che tu sia nato, 

ora lo sappiamo,

solo vogliamo imparare il luogo: dove?


Dove sei? Adesso, dico

dove possiamo trovarti?

Ci siamo smarriti per questo,

abbiamo percorso sentieri inediti

abbiamo mappato desideri deserti 

solo per poter balbettare 

con cuore commosso 

il nostro bruciante bisogno di te.


(Perché, se tu non sei 

noi non ce la facciamo,

a vivere, non ce la facciamo!)


Siamo venuto ad adorarti,

l’abbiamo capito ormai, 

la verità

la vera verità non si apre a chi vuole comprenderti,

conoscerti, spiegarti, incontrarti,

ma solo a chi sente il bisogno di adorarti,

che è un movimento affettivo,

un portare alla bocca per baciare,

per mangiare,

che è tornare bambini,

tornare a giocare, 

a balbettare,

a ridere per niente

a fidarsi ancora della gente,

a rischiare l’azzardo dell’ingenuità:

come arrivare a Gerusalemme e chiedere

di te ai tuoi assassini.


All'udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo. Gli risposero: «A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta: "E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero l'ultima delle città principali di Giuda: da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele"».


Ormai l’abbiamo capito Signore,

il potere immobilizza,

Erode turbato si chiude tra le mura delle sue sicurezze,

Gerusalemme trema tra le pietre 

e i sacerdoti

e anche gli scribi

proprio perché sanno non comprendono.

Non possono:

dovrebbero smettere le vesti,

ripiegare ruoli e privilegi

dovrebbero rendersi irriconoscibili,

passare per irriconoscenti.


Perdere, solo perdere

questo ci salva.

Saranno zoppi

ciechi,

lebbrosi

peccatori

saranno gli ultimi

i poveri

le vedove

saremo noi quando perderemo la faccia,

saremo noi quando accetteremo di confessare che abbiamo

perdutamente bisogno di te,

saremo noi quando accetteremo di comprometterci con te

 e sopporteremo 

di dover vivere passando sempre da ingenui,

è il prezzo da pagare per non essere

del mondo. 


Donami Signore di vedere

le fortificazioni che mi sono costruito

i bastioni religiosi dietro cui ancora mi nascondo

le sicurezze ideologiche che mi proteggono

aiutami a smascherare chi credevo amico

e perdona tutte le volte che sono stato io

sacerdote e scriba,

per quando stupidamente

ho sviato chi cercava Te 

per strade che io non comprendevo.


Come in una nuova Gerico

Signore annientami

lasciami solo 

e disorientato

con un pugno di stelle lanciate in aria

e un cammino sempre nuovo

dettato solo da un sogno.


Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire da loro con esattezza il tempo in cui era apparsa la stella e li inviò a Betlemme dicendo: «Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l'avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch'io venga ad adorarlo».


Io lo so di avere un Erode in me

che intuisce la verità

che abita il segreto dove tu ti sveli

che sa riconoscere i veri maestri

che ha compreso che dovrebbe imparare l’adorazione.

Io lo so di averlo dentro

un Erode che ha paura di perdere,

di tornare a perdersi,

e che altro non sa fare se non ordinare 

di immolare il futuro pur di non perdere

il presente. Uccidilo,

ti prego: uccidi l’Erode che mi assedia il cuore.


Udito il re, essi partirono. Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima. 


Poi la stella ritornerà

non c’è altra gioia 

che non sia la scia luminosa di te,

non c’è altra gioia che rivedere

la luce che credevo spenta,

non c’è altra gioia che abbassare gli occhi e vedere un bambino.

Non c’è altra gioia,

grandissima gioia, se non lontano da Gerusalemme.


Così è per me la preghiera,

quando mi accorgo,

quando non sono distratto da me.

Così è quando riesco a fidarmi davvero 

di te,

che mi disorienti,

che sorridi dei miei smarrimenti,


e poi mi prendi per mano,

e mi riporti a me

e mi dici: ma non lo vedi che ti nasco sempre dentro?


Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un'altra strada fecero ritorno al loro paese.


La casa,

non il tempio,

desacralizzata l’impalcatura

tutto ormai è sacro,

qui brilla l’oro del divino,

ogni carne sarà consacrata

e il profumo d’incenso invaderà l’aria delle povere cose.


Tutto ormai è sacro

questo conservo nello scrigno 

mentre imparo

un’altra strada

un nuovo ritorno.

 

domenica 12 gennaio 2025

Un pensiero di Massimiliano Bardotti sulla bellezza

 

Etty, la gatta più grande, oggi ha dormito sul divano con Zelda, la piccolina. Le ha dormito vicino e con la zampa anteriore destra teneva le zampe posteriori di Zelda. Sembrava quasi le volesse far sentire che c’era, era lì, la teneva ma non troppo. “Sono qui ma sei libera”.
Poi Zelda si è messa a tremare, si è agitata, come se stesse facendo un incubo. Il respiro si è fatto improvvisamente veloce, scattoso. Allora Etty si è svegliata. Ha guardato Zelda. Si è alzata, si è stirata, e ha cominciato a leccarla, lentamente, con una delicatezza commovente. Zelda si è subito calmata e si è rimessa a dormire. Etty no, invece. Si è fermata a guardare Zelda finché non è stata sicura che stesse dormendo, che stesse bene; poi è salita sul bracciolo del divano, proprio sopra rispetto a dove Zelda stava dormendo. Proprio a dire: “Ora veglio io su di te, non temere”.
Io ringrazio il Cielo di poter vivere con accanto queste creature. Saprei molto meno della tenerezza, del prendersi cura, e anche della gioia, senza di loro. Saprei meno anche della sofferenza, perché quando loro stanno male è difficile, per me, stare bene. E quando Dee Dee è morta ha lasciato una ferita nel mio cuore, e va bene così perché nella terra è necessario fare un varco, per poterci piantare un seme. Sono così grato per ogni ora trascorsa con lei, che non maledirò mai la sua morte, anch’essa foriera di promesse.
Qualche notte fa ho avuto dei disturbi intestinali. Ho passato quasi l’intera notte senza dormire. Etty e Zelda sono state con me. La più piccola voleva giocare, Etty strusciava la sua testa sulle mie braccia e faceva le fusa.
Io non penso, come a volte sento dire, che sono meglio di noi o cose del genere. Credo sia stata una grande intuizione del Creatore quella di darci la possibilità di condividere la vita con loro, con gli animali tutti, con le piante, gli alberi, i fiori, con le stelle, con i giardini e i boschi, con le foreste. Con i fiumi, con il mare, con l’oceano. Con i campi di girasole, con gli uccelli del cielo. 
La nostra vita è costellata di doni preziosissimi. Alcuni restano con noi per molto tempo, altri svaniscono velocemente. Altri ancora sono qui da sempre e ci saranno quando non ci saremo più. Questi doni sono stati pensati per noi, affinché potessimo averne cura. Questo sarebbe potuto bastare alla nostra educazione, perché nell’aver cura è nascosto ogni segreto.
La bellezza, col suo linguaggio mistico, ogni giorno ancora vorrebbe piantare nei nostri cuori il suo seme. Mi sembra sia il dono più grande di tutti che ancora non si sia arresa, malgrado le nostre assurde e violente resistenze.

Massimiliano Bardotti



Un pensiero di Louise Gluck



L'occhio si abitua alle sparizioni. Non sarai risparmiata, né ciò che ami sarà risparmiato. 
Un vento è venuto e passato, smontando la mente; 
ha lasciato nella sua scia una strana lucidità. 
Quanto sei privilegiata, ad aggrapparti ancora con passione a ciò che ami; 
la rinuncia alla speranza non ti ha distrutto. 
Maestoso, doloroso: 
Questa è la luce dell’autunno; si è volta su di noi. 
Di certo è un privilegio avvicinarsi alla fine  credendo ancora in qualcosa.

Louise Gluck

Un pensiero di Cristina Campo su poesia e liturgia

 


Il mondo, blocco ottuso e cieco, racchiude in ogni tempo una filigrana di esseri che vivono secondo regole che non sono di questo mondo. E sono gli esseri che mutano il cuore del mondo.
Liturgia – come poesia – è splendore gratuito, spreco delicato, più necessario dell’utile.
Essa è regolata da armoniose forme e ritmi che, ispirati alla creazione, la superano nell’estasi.
In realtà la poesia si è sempre posta come segno ideale la liturgia ed appare inevitabile che, declinando la poesia da visione a cronaca anche la liturgia abbia a soffrirne offesa. Sempre il sacro sofferse della degradazione del profano.

Cristina Campo

Un pensiero di Andrej Tarkowsky - da “Nosthalgia”



La strada del nostro cuore è coperta d'ombra.

Bisogna ascoltare le voci che sembrano inutili, bisogna che dai cervelli occupati dalle lunghe tubature delle fogne e dai muri delle scuole, dagli asfalti e dalle pratiche assistenziali, entri il ronzio degli insetti.

Bisogna riempire gli orecchi e gli occhi di tutti noi, di cose che siano all'inizio di un grande Sogno.

Qualcuno deve gridare che costruiremo le piramidi, non importa se poi non le costruiremo. 

Bisogna alimentare il Desiderio.

Dobbiamo tirare l'Anima da tutte le parti come se fosse un lenzuolo dilatabile all'infinito.

Se vogliamo che il mondo vada avanti dobbiamo tenerci per mano.

Tutti gli occhi dell'umanità stanno guardando il burrone dove stiamo tutti precipitando.

La libertà non ci serve se noi non abbiamo il coraggio di guardarci in faccia, di mangiare con noi, di bere con noi, di dormire con noi. 

La società deve tornare unita e non così frammentata.

Basterebbe osservare la Natura per capire che la Vita è semplice e che bisogna tornare al punto di prima, in quel punto dove abbiamo imboccato la strada sbagliata.







Un pensiero di Paul Klee






Dalle radici la linfa risale fino all'artista, lo invade e gli inonda gli occhi.

Così l'artista diventa come il tronco dell'albero.

Investito e mosso dal potere di questo flusso di linfa, l'artista guarda in avanti e lascia correre la propria immaginazione.

Come vediamo i rami dell'albero protendersi in ogni direzione sia nel tempo che nello spazio, così succede nel processo creativo.

Nessuno chiederebbe mai a un albero di forgiare e di modellare i rami lungo le linee delle radici. Così come fa il tronco, l'artista deve solo tenere insieme tutto ciò che viene dalle parti più basse, che proviene dalle radici per poi veicolarlo in alto, portarlo più in su.

Non deve né essere utile, né dettare delle regole: deve solo trasmettere.

 Paul Klee

Una poesia di Albert Camus


Mia cara,
nel bel mezzo dell’odio
ho scoperto che vi era in me
un invincibile amore.
Nel bel mezzo delle lacrime
ho scoperto che vi era in me
un invincibile sorriso.
Nel bel mezzo del caos
ho scoperto che vi era in me
un’invincibile tranquillità.
Ho compreso, infine,
che nel bel mezzo dell’inverno
vi era in me
un’invincibile estate.
E che ciò mi rende felice.
Perché afferma che non importa
quanto duramente il mondo
vada contro di me,
in me c’è qualcosa di più forte,
qualcosa di migliore
che mi spinge subito indietro.

Camus

La pace...secondo José Tolentino Mendonca

 

È dentro di noi che la pace comincia. Questa pace che nasce dalla riconciliazione con le nostre ferite interiori, ascoltando la nostra vita interiore invece di ignorarla, dando spazio e dignità alle dimensioni più vulnerabili del nostro essere, riconoscendo con umiltà la frustrazione, la violenza e l’aggressività che risiedono anche in noi. Questa pace che nasce dalla capacità di trasformare le nostre quotidiane armi di guerra in vomeri, come ci insegna il profeta. Questa pace che fa vivere fianco a fianco il lupo e l’agnello, e fa pascolare nello stesso campo il leoncello e il vitellino. Questa pace che non troviamo prefabbricata in nessun luogo, ma che s’intesse come un lento lavoro d’artigiano, intrecciando con sapienza fili diversissimi, rispettando l’unicità di ciascuno e, allo stesso tempo, scoprendo il significato profondo della convivialità. 


Un pensiero di Umberto Galimberti sulla forza d'animo

 

«Oggi la si chiama "resilienza", una volta la si chiamava "forza d´animo", Platone la nominava "tymoidés" e indicava la sua sede nel cuore.
Il cuore è l´espressione metaforica del "sentimento", una parola dove ancora risuona la platonica "tymoidés".Il sentimento non è languore, non è malcelata malinconia, non è struggimento dell´anima, non è sconsolato abbandono. Il sentimento è forza. Quella forza che riconosciamo al fondo di ogni decisione quando, dopo aver analizzato tutti i pro e i contro che le argomentazioni razionali dispiegano, si decide, perché in una scelta piuttosto che in un´altra ci si sente a casa. E guai a imboccare, per convenienza o per debolezza, una scelta che non è la nostra, guai a essere stranieri nella propria vita.
La forza d´animo, che è poi la forza del sentimento, ci difende da questa estraneità, ci fa sentire a casa, presso di noi. Qui è la salute. Una sorta di coincidenza di noi con noi stessi, che ci evita tutti quegli "altrove" della vita che non ci appartengono e che spesso imbocchiamo perché altri, da cui pensiamo dipenda la nostra vita, semplicemente ce lo chiedono, e noi non sappiamo dire di no. Il bisogno di essere accettati e il desiderio di essere amati ci fanno percorrere strade che il nostro sentimento ci fa avvertire come non nostre, e così l´animo si indebolisce e si ripiega su se stesso nell´inutile fatica di compiacere agli altri. Alla fine l´anima si ammala, perché la malattia, lo sappiamo tutti, è una metafora, la metafora della devianza dal sentiero della nostra vita. Bisogna essere se stessi, assolutamente se stessi.
Questa è la forza d´animo. Ma per essere se stessi occorre accogliere a braccia aperte la nostra ombra. Che è poi ciò che di noi stessi rifiutiamo.
Quella parte oscura che, quando qualcuno ce la sfiora, ci sentiamo "punti nel vivo". Perché l´ombra è viva e vuole essere accolta. Anche un quadro senza ombra non ci dà le sue figure. Accolta, l´ombra cede la sua forza.
Cessa la guerra tra noi e noi stessi. Siamo in grado di dire a noi stessi:
"Ebbene sì, sono anche questo". Ed è la pace così raggiunta a darci la forza d´animo e la capacità di guardare in faccia il dolore senza illusorie vie di fuga.
"Tutto quello che non mi fa morire, mi rende più forte", scrive Nietzsche.
Ma allora bisogna attraversare e non evitare le terre seminate di dolore.
Quello proprio, quello altrui. Perché il dolore appartiene alla vita allo stesso titolo della felicità. Non il dolore come caparra della vita eterna, ma il dolore come inevitabile contrappunto della vita, come fatica del quotidiano, come oscurità dello sguardo che non vede via d´uscita. Eppure la cerca, perché sa che il buio della notte non è l´unico colore del cielo.
Di forza d´animo abbiamo bisogno soprattutto oggi perché non siamo più sostenuti da una tradizione, perché si sono rotte le tavole dove erano incise le leggi della morale, perché si è smarrito il senso dell´esistenza e incerta s´è fatta la sua direzione. La storia non racconta più la vita dei nostri padri, e la parola che rivolgiamo ai figli è insicura e incerta.
Gli sguardi si incontrano solo per evitarsi. Siamo persino riconoscenti al ritmo del lavoro settimanale che giustifica l´abituale lontananza dalla nostra vita. E a quel lavoro ci attacchiamo come naufraghi che attendono qualcosa o qualcuno che li traghetti, perché il mare è minaccioso, anche quando il suo aspetto è trasognato.
Passiamo così il tempo della nostra vita, senza sentimento, senza nobiltà, confusi tra i piccoli uomini a cui basta, secondo Nietzsche: "Una vogliuzza per il giorno, una vogliuzza per la notte, fermo restando la salute".
Perché ormai della vita abbiamo solo una concezione quantitativa. Vivere a lungo è diventato il nostro ideale. Il "come" non ci riguarda più, perché il contatto con noi stessi s´è perso nel rumore del mondo.
Passioncelle generiche sfiorano le nostre anime assopite. Ma non le risvegliano. Non hanno forza. Sono state acquietate da quell´ideale di vita che viene spacciato per equilibrio, buona educazione. E invece è sonno, dimenticanza di sé. Nulla del coraggio del navigante che, lasciata la terra che era solo terra di protezione, non si lascia prendere dalla nostalgia, ma incoraggia il suo cuore. Il cuore non come languido contraltare della ragione, ma come sua forza, sua animazione, affinché le idee divengano attive e facciano storia. Una storia più soddisfacente».

Umberto Galimberti

giovedì 9 gennaio 2025

"Primo gennaio", di Eugenio Montale


 “Primo Gennaio” 

So che si può vivere
non esistendo,
emersi da una quinta, da un fondale,
da un fuori che non c’è se mai nessuno
l’ha veduto.
So che si può esistere
non vivendo,
con radici strappate da ogni vento
se anche non muove foglia e non un soffio increspa
l’acqua su cui s’affaccia il tuo salone.
So che non c’è magia
di filtro o d’infusione
che possano spiegare come di te s’azzufino
dita e capelli, come il tuo riso esploda
nel suo ringraziamento
al minuscolo dio a cui ti affidi,
d’ora in ora diverso, e ne diffidi.
So che mai ti sei posta
il come – il dove – il perché,
pigramente rassegnata al non importa,
al non so quando o quanto, assorta in un oscuro
germinale di larve e arborescenze.
So che quello che afferri,
oggetto o mano, penna o portacenere,
brucia e non se n’accorge,
né te n’avvedi tu animale innocente
inconsapevole
di essere un perno e uno sfacelo, un’ombra
e una sostanza, un raggio che si oscura.
So che si può vivere
nel fuochetto di paglia dell’emulazione
senza che dalla tua fronte dispaia il segno timbrato
da Chi volle tu fossi…e se ne pentì.
Ora,
uscita sul terrazzo, annaffi i fiori, scuoti
lo scheletro dell’albero di Natale,
ti accompagna in sordina il mangianastri,
torni indietro, allo specchio ti dispiaci,
ti getti a terra, con lo straccio scrosti
dal pavimento le orme degli intrusi.
Erano tanti e il più impresentabile
di tutti perché gli altri almeno parlano,
io, a bocca chiusa.

Eugenio Montale

mercoledì 8 gennaio 2025

Una poesia di Mariangela Ruggiu: "Sciogli i nodi sulla lingua"

 

Sciogli i nodi sulla lingua

leva la polvere al mio silenzio

segna le mie mani con la cura

e le mie notti aprile al buio

quando traccio i bordi del mio corpo 

quando cerco le tue impronte 

sulla pelle che sciogli come il ghiaccio 

Accendi fuochi, anche piccole luci

in questa strada in cui mi perdo

cercando i segni, le parole

Abbagliami che la tua luce invada

le piccole buone cose e la mano dell'ira 

che la cenere insegni la caducità 

che il male riveli com'è il perdersi

senza di te, che la vita è prima

di ogni morte, e dopo è oltre


Mariangela Ruggiu

C’è un luogo in ciascuno di noi, di Andrew Faber

 

C’è un luogo in ciascuno di noi

che aspetta di essere visto.
È buio, come un abisso nascosto
silenzioso e immenso.

Lì dormono le paure
le ambizioni che abbiamo seppellito
le parole che non abbiamo detto
per paura di romperci.
Guardarlo fa paura.
Abitarlo, ancora di più.
La realtà ci spinge fuori
dove il rumore è più forte
dove i gesti si affrettano
dove il cielo sembra sempre più alto
e la terra sempre più lontana.
E noi, lì, a rincorrere ombre
a costruire muri
mentre la voce dentro sussurra:
“Vieni, fermati. Guarda.”
La vita non è pubblicità di emozioni
ma improvvisazione di anima.
Ma guardare dentro è un lavoro difficile.
È come spogliarsi con dita fragili.
È come ascoltare un vecchio canto
fatto di cose dimenticate
di dolore che non ha avuto parole
di luci mai accese.
Eppure, lì dentro
nell’oscurità che temiamo
c’è la radice di ogni nostro sogno
c’è il seme che aspetta solo
di essere portato alla luce.
Perché non si cresce con le illusioni
ma con il coraggio di guardarsi interi:
le crepe, i vuoti
i piccoli miracoli nascosti.
Anche il mondo – il nostro mondo –
ha bisogno di questo sguardo.
Non più occhi distratti
che si posano solo dove il vento luccica
ma mani che scavano
nelle pieghe profonde della terra
nelle storie che nessuno ascolta.
La coscienza non è un grido
è un sussurro che cresce.
È il tocco leggero
di chi sa che ogni gesto
anche il più piccolo
cambia la forma del tempo.
E allora impariamo ad abitare
questa profondità che chiama
questa bellezza che non grida
questo silenzio che insegna.
Perché solo chi sa guardarsi dentro
può davvero svegliarsi.
E quando ci svegliamo
noi, come alberi
portiamo alla luce
un’intera foresta.
E in quella foresta
nel bosco infinito dell’essere
il ramo si spacca e fiorisce
il canto del buio diventa luce
e la vita intera
finalmente ringrazia.

Andrew Faber

martedì 7 gennaio 2025

Una poesia di Noemy Carcea

 

Ci alzeremo in volo invisibili

allo sguardo terreno chiarissimi

al mistero spogli d'ossa e carne

un destino d'aria ci attende

il resto è solo memoria

apparteniamo al vento alla sua

prima luce al suo ultimo bacio 

decide lui il momento ne basta

un refolo soltanto perché sia

cenere il nostro tempo.


Noemy Carcea

Una poesia di Gunvor Hofmo: "Il tuo cuore"



Il tuo cuore non

grida più come 

il corvo nella neve

non infilza più le stelle

con la lancia della sua angoscia

ma ascolta. Sotto ogni cosa

una crepuscolare melodia

di maturazione,

di oscuro borbottìo

sul bene e il male

in equilibrio nonostante tutto


GUNVOR HOFMO

lunedì 6 gennaio 2025

Un pensiero e due poesie di Clarice Lispector


All’estremo di me: lì soltanto sono. Io, l’implorante, io, l’orante, quella che chiede, prega, lamenta. Eppure: quella che canta – che parla.

Parola al vento? Che importa: i venti me le riportano intatte e io le possiedo.
Io, al lato del vento. La collina dei venti che ululano mi chiama. Vado, perché sono una strega.
E mi trasmuto.

Oh, cagnolino, dov’è la tua anima? È presso il tuo corpo? Io sono il mio corpo. E muoio, lentamente. Cosa dico? Dico amore. Nella cerchia dell’amore, lì siamo.


  




Non liberare i cavalli
Come sempre, quando scrivo ho il timore
di andare troppo lontano. Perché? Mi fermo
come se arpionassi le redini di un cavallo
pronto a scattare al galoppo per portarmi
chissà dove. Mi contengo. Perché? A cosa serve
questa rinuncia? Me ne sono accorta quando
ho scritto “per scrivere non devi avere paura”.
Paura di che cosa? Di circoscrivere i giardini
del mio talento? Forse è la paura
dell’apprendista stregone che non riesce a limare
i propri incantesimi. Come una donna che resta
intatta e dona il suo giorno d’amore, voglio
morire integra perché soltanto Dio possa avermi.






Non è la morte a farci male
ciò che ci ferisce è vivere:
la morte è qualcosa d’altro
qualcosa che preme dietro la porta.

La mania dell’uccello di darsi al Sud
prima che arrivi il ghiaccio:
sfida la latitudine più adatta, ma noi
siamo gli uccelli che rimandano il volo.

Siamo quelli che tremano, alla soglia
delle porte, implorano una briciola
finché la neve, la piena di pietà,
non addestri le nostre piume a tornare a casa.


Una poesia di Vittorio Bodini: "Conosco appena le mani"

 

Conosco appena le mani,
le scarpe che metto ai piedi.
Conosco il giorno e la notte
e i terrori del vento.
Ma gli anni? Dove son gli anni,
e tutti i libri che ho letto?
I volti amati si sfrondano
delle loro vicende,
non restano che i nomi.
Tutto nella memoria
cade a pezzi, sprofonda
senza rumore
nelle botole dei morti.
Ah, dove sono le acute presenze
del passato, le sue calde forme,
la cera su cui incidevano
i miei sentimenti?
Dove si nasconde il senso
delle cose che ho vissuto,
e i brividi lucenti
e i cieli dell'avventura?

Vittorio Bodini

(6 gennaio 1914 – 19 dicembre 1970)

domenica 5 gennaio 2025

Miriam Bruni primo posto Premio poesia "Otto milioni" 2018 by DILA #BCM1...

Una poesia di José Cereijo

 

Con la delicatezza

e la precisione con cui si dipinge

l'ombra di quell'albero sul terreno,

fino al minimo dettaglio,

senza ostinazione, in cui

nulla manca, perché nulla è superfluo,

così sarebbe

scrivere, vivere.

José Cereijo

(Traduzione Marco Masciovecchio)

"Per te" di Adam Zagajewski


Per te - che forse dormi ora, in una nuvola 

di sogni di lana - scrivo più di questa poesia.

Per te, vittoriosa, sorridente, bellissima,

ma anche per te, triste, sconfitta

(anche se non riuscirò mai a capire,

chi sconfiggerti potrebbe!),

per te diffidente, ansiosa,

per te scrivo poesia dopo poesia,

come se un giorno volessi - come una tartaruga

- arrivare a te, con parole imperfette

e immagini, li, dove sei da sempre,

dove t'ha portato il lampo della vita.


[traduzione di Marco Masciovecchio]


Una lettera di Clarice Lispector (1947)


Cara,

Non pensare che una persona abbia tanta forza da condurre una specie di vita e continuare a essere la stessa. Perfino tagliare i propri difetti può essere pericoloso, non si sa mai quale sia il difetto che sorregge il nostro edificio intero. Non so come spiegarti la mia anima. Ma quello che vorrei dire è che le persone sono molte preziose, e che solo fino a un certo punto possono rinunciare a se stesse e consegnarsi agli altri e alle circostanze. Dopo che una persona ha perduto il rispetto verso se stessa e verso le proprie necessità — rimane una specie di straccio. Avrei tanto voluto essere vicina a te e chiacchierare e raccontare esperienze mie e di altri. Avresti visto che ci sono certi momenti in cui il primo dovere da compiere è in relazione a se stessi. Da parte mia, non avrei voluto raccontarti come sono oggi, perché mi pareva inutile. Volevo semplicemente raccontarti il mio nuovo carattere, un mese prima di tornare in Brasile, in modo che lo sapessi. Ma spero, sulla nave o sull’aereo che ci porterà di ritorno, di trasformarmi istantaneamente nell’antica che ero, e forse non sarebbe necessario raccontarlo. Cara, quasi quattro anni mi hanno trasformata molto. Dal momento in cui mi sono rassegnata, ho perso tutta la vivacità e ogni interesse per le cose. Hai mai visto come un toro castrato si trasforma in un bue? Lo stesso si può dire di me... e mi pesa il duro confronto... Per adattarmi a ciò che era inadattabile, per vincere le mie ripulse, ho dovuto tagliare le mie catene — ho tagliato in me la forma che avrebbe fatto male agli altri e a me. E con questo ho tagliato anche la mia forza. Spero che tu non mi veda mai così rassegnata, perché è quasi ripugnante. Spero, sulla nave che mi porterà di ritorno, al solo pensiero di vederti e di riprendere un po’ la mia vita — che non era meravigliosa ma era una vita — di trasformarmi interamente.
Un’amica, un giorno, mi ha fatto coraggio, così diceva, e mi ha domandato: “Eri molto diversa, no?”Lei mi trovava ardente e vibrante, e quando mi ha incontrata si è detta: o questa calma eccessiva è un atteggiamento o lei è cambiata tanto da apparire quasi irriconoscibile. Un’altra persona ha detto che io mi muovo con la lassitudine di una donna di cinquant’anni. Tutto questo tu non lo vedrai né avvertirai, così voglia Dio.
Non ci sarebbe bisogno di dirlo, allora. Ma non ho potuto far a meno di volerti mostrare ciò che può accadere a una persona che è scesa a patti con tutti, e che si è dimenticata che il nucleo vitale di una persona va rispettato. Ascolta: rispetta anche ciò che c’è di cattivo in te — per amor di Dio, non volere fare di te una persona perfetta — non copiare nessuna persona ideale, copia te stessa — è questo l’unico modo di vivere.
Giuro su Dio che, se è vero che esiste un cielo, una persona che si sia sacrificata per vigliaccheria — sarà punita e andrà all’inferno. Sempre che una vita tiepida non venga punita proprio per questa tiepidezza. Prendi per te quello che ti appartiene, e quello che ti appartiene è tutto ciò che la tua vita esige. Sembra una vita amorale. Ma ciò che è veramente immorale è avere rinunciato a se stessi. Spero in Dio che tu mi creda. Mi piacerebbe perfino che, a mia insaputa, tu mi vedessi e assistessi alla mia vita. Io sarei una lezione per me stessa. Vedere cosa può succedere quando si patteggia con la comodità d’anima.

Tua Clarice.

sabato 4 gennaio 2025

Un pensiero di Carlo Levi


Come la realtà è molteplice; come, in ogni cosa, in ciascuno di noi, coesistono tempi diversi e lontanissimi! e quanto più viva, reale e complessa è una persona, quando in lei questa contemporaneità di condizioni e di situazioni diverse, come strati geologici, questa eternità della storia e della preistoria, è presente: e quando gli elementi arcaici non sono relegati o totalmente nascosti in un oscuro subcosciente dove possono parere dimenticati e del tutto inoperanti, ma affiorano alla superficie, e diventano contenuti di poesia, energia vitale, capacità di comprensione universale, fuori dalla meccanica limitazione degli schemi sociali e psicologici della vita quotidiana!

 Carlo Levi

Da "TUTTO IL MIELE È FINITO"


Una poesia di Marco A. Ribani

 


Sei venuta in questo mondo per me 
ora stai chiusa dentro la pietra del mio cuore.
Abbiamo camminato per secoli insieme.
Siamo stati belli. Ma tu ora sei ancora
più bella con dentro gli occhi l’ombra
della morte. Eppure viene un vento 
di vitale verde tenerezza e allora
forse è vero che dentro il tempo muoiono
fiori chiocciole farfalle l’aroma delle piante
ma non muoiono mai le primavere e la gioia
e i tristi presagi dell’autunno 
e le cortecce e le loro amate rughe.

5 ottobre 2018

Marco Armando Ribani