martedì 31 dicembre 2019

Alessandra Corbetta

Sono deserta
in questo posto che non mi attraversa
Nemmeno le rondini
che tornano sono le stesse
del marzo di prima.
Un tuffo in piscina e dicevi
quanto ero vecchia
a non voler crescere,
a voler restare bambina.

giovedì 26 dicembre 2019

Cvetaeva - frammenti di prosa

12 agosto 1936
Tu non sei innocuo, Boris, tu istighi la vendetta e la gelosia: questo è il destino di chi conosce il segreto della vita. Quando sorridi, tu stritoli, lo so, anche se non ti vedo – e non voglio vederti per non essere stritolata. Come può non avere terrore la donna che abita la tua stanza da letto quando tu possiedi continenti e civiltà nei tuoi occhi? Se fossi tua moglie, di notte ti cucirei le palpebre – oppure le bucherei con un ago, per vedere sorgere, insieme al sangue, giungle e ghepardi, galeoni e sassoni, nevi, carrozze, monasteri, prigioni… Vivo in cattività – incattivita – tu non puoi darmi nulla. Io non ti darò niente. Le parole infine sono la nenia con cui imbamboliamo l’assenza del corpo. Ieri ti ho sognato, Boris: eri Rilke. Io avrei potuto essere qualsiasi cosa, anche un verso delle Elegie, oppure il portiere dell’albergo che lo ha ospitato, a Firenze, oppure la Neva. Eri Rilke, ma poiché eri Pasternak ti avrei potuto avere – saresti stato mio, ceduto. Eppure, eri così innocuo che preferii abbandonarti.
Marina


“Incontrandoti, io incontrerei me – con gli artigli sfoderati contro me stessa… Io non capisco la carne come tale, non le riconosco alcun diritto… Tu sai di cosa io ho voglia – quando voglio. Di oscuramento, rischiaramento, trasfigurazione. Dell’estremo promontorio dell’anima altrui – e della mia. Delle parole che non sentirai, non dirai mai. Dell’inaudito. Del mostruoso. Del prodigio”.

martedì 24 dicembre 2019

Gibran

La poesia è il salvagente
cui mi aggrappo
quando tutto sembra svanire.
Quando il mio cuore gronda
per lo strazio delle parole che feriscono, dei silenzi che trascinano verso il precipizio.
Quando sono diventato così impenetrabile
che neanche l’aria
riesce a passare.
Khalil Gibran

Alda Merini - bisogna essere santi

Bisogna essere santi
per essere anche poeti:
dal grembo caldo d’ogni nostro gesto,
d’ogni nostra parola che sia sobria,
procederà la lirica perfetta
in modo necessario ed istintivo.
Noi ci perdiamo, a volte, ed affanniamo
per i vicoli ciechi del cervello,
sbriciolati in miriadi di esseri
senza vita durevole e completa;
noi ci perdiamo, a volte, nel peccato
della disconoscenza di noi stessi.
Ma con un gesto calmo della mano,
con un guardar “volutamente” buono,
noi ci possiamo sempre ricondurre
sulla strada maestra che lasciammo,
e nulla è più fecondo e più stupendo
di questo tempo di conciliazione.
Alda Merini

lunedì 23 dicembre 2019

Natività

La "Natività", è un dipinto realizzato nel 1597, dal pittore italiano
FEDERICO BAROCCI, detto il Fiori (Urbino, 1535 –Urbino, 1612).
È conservato al Museo del Prado di Madrid e fu donato nel 1605 alla regina di Spagna Margherita d’Austria da Francesco Maria Della Rovere, duca di Urbino.

giovedì 19 dicembre 2019

Luce Irigaray "Partager le monde"

In questo dono che ciascuno fa all'altro per il solo fatto di riconoscerlo e accoglierlo come altro, siamo insieme due e uno. Ciascuno deve essere sé e ritornare a sé nella sua alterità affinché l'unità esista.
In tale sorta di scambio niente è mai posseduto, comunque non in maniera definitiva, pena l'interruzione della partecipazione bilaterale. Ciò che è provato e ricevuto deve rimanere fluido, al servizio del divenire di ciascuno e della relazione fra i due. E' così anche per il benessere o la felicità. che vanno percepiti come provenienti dai due...
L'apertura all'altro e il ritorno a sé producono incessantemente frontiere mobili - che contornano l'energia e le consentono di svilupparsi secondo un ordine vivente. Non più limiti imposti da un di fuori, ma un essere-in-relazione che esige in ogni istante un'efflorescenza contenuta per ciascuno.
Coltivare l'attrazione implica non lasciarla paralizzare in abitudini, norme, gesti e discorsi già definiti.
Il desiderio va a perdersi se non vi si sta attenti.
Ciò che fa del desiderio occasione di degradazione è la non considerazione del suo carattere originale e singolare, e del contesto intersoggettivo in cui accade.
L'altro arresta il mio slancio verso un avvenire cui solo la morte dava un orizzonte, opponendogli il limite imposto da un'altra trascendenza, la sua.
Non è solo da ciò che ci circonda che dobbiamo essere affetti. Questa affezione deve accompagnarsi a una auto-affezione che la metta in prospettiva, e richiede di misurarsi con ostacoli specifici da parte dell'uomo o della donna.
Lo spazio allestito intorno all'altro non può essere il risultato di una semplice previdenza nei suoi confronti, almeno non di una previdenza concernente qualsiasi cosa si possa immaginare a partire da un mondo proprio.
L'altro come altro sfugge al mio sguardo, alla mia rappresentazione. Una logica che privilegia lo sguardo esclude la coesistenza e la comunicazione con l'altro come altro. E ogni stima di differenza rispetto all'altro diventa allora solo quantitativa, cioè valutata in funzione di una stessa scala di valori. Riteniamo che l'altro valga più o meno di noi, invece di differire da noi e vivere in un mondo dove altri valori hanno corso.


Non è in una dimora immutabile, nella quale abbiamo riservato un posto per qualunque ospite, che dobbiamo accogliere chi ci appella. Il luogo dove potremmo accoglierlo è ancora da scoprire, da aprire, da allestire. Importa provare e ascoltare con tutto il nostro essere dove siamo stati colti dall'appello, e come corrispondervi. Dare un'ospitalità tradizionale è senza dubbio meglio che vietare completamente l'accesso della propria dimora all'altro, ma non significa ancora condividere con lui...


Nel silenzio, l'altro può avanzare verso noi, così come noi possiamo avanzare verso lui. Un silenzio che è anzitutto un'indicazione a proposito della nostra attitudine a rinunciare a un significato organizzato solo dai nostri propri segni. E' l'annuncio di un riserbo, non solo in noi per appropriarci di ciò che accade, ma anche fuori di noi per lasciargli uno spazio-tempo per accadere.
Luce Irigaray

lunedì 9 dicembre 2019

Spaziani

Vorrei sentire la tua mano fresca
sulla fronte che brucia. Così scende
sopra i roseti esausti la rugiada.
Così sboccia la luna nel buio.
Aiutami ad amarti, ad inventarti
nelle tue assenze. La mia fantasia
è comunque un tuo dono, un chiaro alibi
in questo mondo senza altrove.

domenica 8 dicembre 2019

Mary Oliver - Misteri, sì.

Misteri, sì
Davvero, viviamo con misteri troppo prodigiosi
per essere compresi.
Come l’erba possa essere nutrimento nella
bocca degli agnelli.
Come fiumi e pietre siano per sempre
devoti alla gravità
mentre noi sogniamo di elevarci.
Come due mani si tocchino e i legami
non siano mai spezzati.
Come le persone si avvicinino, per delizia o per
le cicatrici del danno,
al conforto di una poesia.
Lasciami prendere le distanze, sempre, da chi
pensa di avere le risposte.
Lascia che io faccia compagnia sempre a chi dice
“Guarda!” e ride di stupore,
e china la testa.

Mysteries, Yes
Truly, we live with mysteries too marvelous
to be understood.
How grass can be nourishing in the
mouths of the lambs.
How rivers and stones are forever
in allegiance with gravity
while we ourselves dream of rising.
How two hands touch and the bonds
will never be broken.
How people come, from delight or the
scars of damage,
to the comfort of a poem.
Let me keep my distance, always, from those
who think they have the answers.
Let me keep company always with those who say
“Look!” and laugh in astonishment,
and bow their heads.
Mary Oliver (Maple Heights – Ohio, 1935-2019), da Evidence, Poems by Mary Oliver

One day you finally knew...Un giorno comprendesti finalmente

One day you finally knew
what you had to do, and began,
though the voices around you
kept shouting
their bad advice-
though the whole house
began to tremble
and you felt the old tug
at your ankles.
"Mend my life!"
each voice cried.
But you didn't stop.
You knew what you had to do,
though the wind pried
with its stiff fingers
at the very foundations, though their melancholy
was terrible.
It was already late
enough, and a wild night,
and the road full of fallen branches and stones.
but little by little,
as you left their voices behind,
the stars began to burn
through the sheets of clouds,
and there was a new voice
which you slowly
recognized as your own,
that kept you company
as you strode deeper and deeper
into the world,
determined to do
the only thing you could do-
determined to save
the only life you could save.

Mary Oliver, Dream Work,  & New and Selected Poems, Beacon Press, 1992.


Un giorno, finalmente, hai capito
quel che dovevi fare, e hai cominciato,
anche se le voci intorno a te
continuavano a gridare
i loro cattivi consigli-
anche se la casa intera
si era messa a tremare
e sentissi le vecchie catene
tirarti le caviglie.
“Sistema la mia vita!”,
gridava ogni voce.
Ma non ti fermasti.
Sapevi quel che andava fatto,
anche se il vento frugava
con le sue dita rigide
giù fino alle fondamenta, anche se la loro malinconia
era terribile.
Era già piuttosto tardi,
una notte tempestosa,
la strada era piena di sassi e rami spezzati.
Ma poco a poco,
mentre ti lasciavi alle spalle le loro voci,
le stelle si sono messe a brillare
attraverso gli strati di nubi
e poi c'era una nuova voce
che pian piano
hai riconosciuto come la tua,
che ti teneva compagnia
mentre procedevi a grandi passi,
sempre più nel mondo,
determinata a fare
l'unica cosa che potevi fare -
determinata a salvare
l'unica vita che potevi salvare.

Due poesie di Mary Olivier

Un giorno, finalmente, hai capito
quel che dovevi fare e hai cominciato,
anche se le voci intorno a te
continuavano a gridare
i loro cattivi consigli;
anche se la casa intera
si era messa a tremare
e ti sentivi alle calcagna
l’antico contrasto.
“Sistema la mia vita!”,
gridava ogni voce.
Ma non ti fermasti.
Sapevi quel che andava fatto,
anche se il vento frugava
con le sue dita rigide
giù fino alle fondamenta,
anche se la loro malinconia
era terribile.
Era già piuttosto tardi,
era una notte tempestosa,
la strada era piena di sassi e rami spezzati.
Ma poco a poco,
mentre ti lasciavi alle spalle le loro voci,
le stelle si sono messe a brillare
attraverso gli strati di nubi
e poi c’era una nuova voce
che pian piano hai riconosciuto come la tua,
che ti teneva compagnia
mentre t’inoltravi sempre più,
di buon passo, nel mondo,
determinata a fare
l’unica cosa che potevi fare;
determinata a salvare
l’unica vita che potevi salvare.
Mary Oliver – Il Viaggio


THE SUMMER DAY

Who made the world?
Who made the swan, and the black bear?
Who made the grasshopper?
This grasshopper, I mean-- the one who has flung herself out of the grass,
the one who is eating sugar out of my hand,
who is moving her jaws back and forth instead of up and down--
who is gazing around with her enormous and complicated eyes.
Now she lifts her pale forearms and thoroughly washes her face.
Now she snaps her wings open, and floats away.
I don't know exactly what a prayer is.
I do know how to pay attention, how to fall down
into the grass, how to kneel down in the grass,
how to be idle and blessed, how to stroll through the fields,
which is what I have been doing all day.
Tell me, what else should I have done?
Doesn't everything die at last, and too soon?
Tell me, what is it you plan to do
with your one wild and precious life?
Mary Oliver, The House Light Beacon Press Boston, 1990.
Chi ha fatto il mondo?
Chi ha fatto il cigno e l'orso bruno?
Chi ha fatto la cavalletta?
Questa cavalletta, intendo, quella che è saltata fuori
dall'erba,
che sta mangiandomi lo zucchero in mano,
che muove le mandibole avanti e indietro invece che in su e in giù
e si guarda attorno con i suoi occhi enormi e complicati.
Ora solleva le zampine chiare e si pulisce il muso, con cura.
Ora apre le ali di scatto e vola via.
Non so esattamente che cosa sia una preghiera;
so prestare attenzione, so cadere nell'erba,
inginocchiarmi nell'erba,
so starmene beatamente in ozio, so andare a zonzo nei prati,
è quel che oggi ho fatto tutto il giorno.
Dimmi, che altro avrei dovuto fare?
Non è vero che tutto muore prima o poi, fin troppo presto?
Dimmi, che cosa pensi di fare
della tua unica vita, selvaggia e preziosa?


giovedì 21 novembre 2019

Su Cvetaeva

Una donna per bene non è una donna, scrisse Marina Cvetaeva nell’inverno del 1919. Fu un terribile inverno di povertà, giovinezza e dolore, lei aveva ventisette anni, frequentava poeti, scrittori, pittori, attori di teatro, si infatuava di uomini e donne mentre il marito Sergej Efron era lontano, arruolato nell’Armata bianca: lei lo aveva sposato per amore e con amore gli rimase accanto, lo amò mentre era assente (Serena Vitale, la più grande studiosa italiana di Marina Cvetaeva, non esclude che Sergej si fosse arruolato in seguito al primo tradimento di Marina con suo fratello Petja, attore), lo amò anche mentre non lo amava più e andava incontro, tutta, al primo che passava per strada. A ognuno chiedeva amore smisurato e sfrenata tenerezza e libertà, a ognuno chiedeva che le provasse, attraverso l’amore, che lei esisteva davvero. Che era in vita. Ogni indizio terrestre, ogni bacio sognato in Marina Cvetaeva era un incendio dell’anima. “Io devo essere amata in modo del tutto straordinario per poter amare straordinariamente”, scrisse a Aleksandr Vasil’evic Bachrach, un ragazzo di vent’anni di cui si era innamorata, o invaghita, a cui mandò molte lettere, parlò dell’anima, corresse le parole sbagliate o goffe, dedicò poesie, e a cui chiese, imperiosa: “Voglio da Voi, ragazzo, il miracolo. Il miracolo della fiducia, della comprensione, della rinuncia”.
Marina Cvetaeva chiedeva ai suoi amori, tutti, la rinuncia a una vita insieme, la comprensione profonda di quel modo di stare al mondo come in un perenne incendio che aveva al centro di ogni cosa la poesia e il bisogno di scrivere, e chiedeva la fiducia assoluta in un amore che conteneva in sé un particolare tipo di fedeltà – la fedeltà all’anima, la fedeltà a se stessi. In questo senso Marina Cvetaeva, all’inizio del secolo scorso, prima, durante e dopo la Rivoluzione, a vent’anni come a cinquanta, nella sua vita di donna innamorata e di poetessa che non poteva annientarsi per amore, per non diventare cieca di fronte agli alberi, alla neve, al mondo (“la creazione artistica e l’amore sono incompatibili”), in questo senso, con addosso quell’unico logoro vestito marrone, con i figli e un marito a cui scriveva lettere d’amore, Marina rivendicava per sé la certezza, ma anche la naturalezza, di non essere per bene. Di andare incontro agli altri con le braccia protese, e dare, e prendere, e chiedere amore, dolcezza, affetto, e cercare ogni volta una fusione.
L’amore di Marina Cvetaeva è un’arte poetica che comprende tutto, è un modo di vivere che a volte è disincarnato, costruito sopra l’assenza dei corpi, fatto soltanto di parole, a volte distrattamente erotico, ma è un amore in cui, se ci si bacia, ci si ama (“io ho questa stupida convinzione: se baci – allora vuol dire che ami!”). Lei scrisse di non amare il mare, perché era “troppo simile all’amore. Non amo l’amore (aspettare quello che mi farà)”, ma passò gli inverni e le primavere e l’esilio a ricoprire ogni cosa d’amore e a mendicare amore, come un carburante per trovare le parole, per conoscere il mondo e per sentire di esistere. Per soffrire, soprattutto: Marina diventava infelice appena l’amore si scontrava con la realtà. Già sua madre era stata infelice in amore, aveva rinunciato all’uomo che amava, sposato, per lasciare che un altro dicesse di lei “mia moglie”, aveva accettato che un professore non amato diventasse il padre delle sue figlie: Marina lo sapeva e ne era orgogliosa. Da bambina lesse di nascosto dai grandi “Eugenio Onegin”, il poema di Aleksandr Puškin (Tatiana e Onegin non si amarono mai, pur amandosi sempre: all’inizio lui respinge Tatiana, alla fine Tatiana respinge Onegin): in un saggio su Puškin , nel 1937, Marina Cvetaeva scrisse che quell’amore non riuscito “predeterminò in me tutta la passione per l’amore infelice, non reciproco, impossibile. Da quel preciso istante non ho voluto essere felice e con questo mi sono condannata – al nonamore”.
Il nonamore ha vissuto dentro molti amori, il nonamore cresceva perché l’amore era incompatibile con la vera ossessione della vita: la scrittura. La scrittura ha guidato ogni gesto di Marina Cvetaeva, e la irritavano le parole imprecise, le domande stupide, i pensieri meschini, la vita priva di poesia (“trovate parole che mi incantino: credo soltanto agli incantesimi”). Marina si irritava anche per l’amore eccessivo, cieco, ottuso: in una lettera a un amico, prima della Rivoluzione, racconta la sua formula dell’amore, anche se è forse ancora piena dell’invincibilità della giovinezza. L’amore per lei era prima di tutto comprensione, riconoscimento, condividere una passione: “Voglio leggerezza, libertà, comprensione – non trattenere nessuno e che nessuno mi trattenga” (per questo amò Boris Pasternak, amò Rainer Maria Rilke – “E’ così raro che le mie mani vogliano qualcosa”, “Posso baciarti?”, “Io ti amo e voglio dormire con Te, lo dico con altra voce, quasi nel sonno, già nel sonno” – e amò i poeti e le poetesse e chi si incendiava come lei per un verso, per l’albero al bordo della strada).
“Quello che voi chiamate amore (sacrificio, fedeltà, gelosia) tenetelo in serbo per gli altri, per un’altra – io non ne ho bisogno. Io posso amare solo la persona che in una giornata di primavera a me preferirà una betulla”. Marina civettava, leggera, danzante, e raccontava compiaciuta all’amico di quanto si fosse infuriata perché, passeggiando per il Cremlino con un uomo, un amante, un poeta, “una persona incantevole”, quest’uomo le parlava incessantemente di lei. “Come potete non capire che il cielo – alzate la testa e guardate! – è mille volte più grande di me, come potete pensare che in una simile giornata io possa pensare al Vostro amore, all’amore di chicchessia!”. Era fiera di essere così, libera, anticonformista (avrebbe odiato questa parola), interessata più al cielo che all’uomo ardente d’amore per lei. Totalmente estranea all’idea di dover essere, negli anni Venti, una ragazza per bene. “Non è facile amare una cosa difficile come me”, scriveva più tardi, con gli anni che le avevano lasciato addosso segni e lutti e dolore e solitudine, e non era facile per gli uomini a cui protendeva le braccia e le parole tenere vivo quell’amore, o almeno corrispondervi pienamente. Marina non si occupava dei pettegolezzi e non aveva pensieri meschini (“Non baciarsi mai con nessuno – lo capisco – cioè non lo capisco, ma non irrimediabilmente – ma se ci si bacia –, con quale pretesto non andare oltre? Buonsenso? – Una bassezza! mi disprezzerei. Poi lo ami di meno? Non si sa, forse di meno, forse di più. Fedeltà? – Allora non baciare”), ma davanti a questa sfrenatezza, a questa dismisura di sentimenti e di parole e di attese, davanti all’attesa di un miracolo (“vi stringo affettuosamente la mano e attendo da Voi prodigi”) gli uomini dentro la vita dei giorni di Marina spesso fuggivano, impauriti, oppure le davano appuntamenti a cui lei mancava per volontà, perché preferiva “amare gli assenti” dentro il paese della sua anima, e attribuire loro anche le qualità che non possedevano: far combaciare l’amore con l’idea dell’amore.
Sapeva che avrebbe rovinato l’amore con gli inciampi dei corpi, con l’incapacità dell’amato del momento di essere all’altezza di uno slancio, di un’esaltazione che comunque lo scavalcava e lo faceva rimpicciolire, sbiadire, e infine sovrapporsi a un altro. E poiché lui rimpiccioliva, Marina stessa si sentiva rimpicciolire, le cadevano le braccia che aveva proteso, soffriva per i silenzi, per il pallore del sentimento che riceveva indietro, magari si annoiava, smaniava, si svuotava: “Posso portare avanti dieci rapporti (che orrore: ‘rapporti’), insieme e convincere ognuno e subito, dalla più profonda profondità, che è l’unico. Ma non tollero che mi si voltino le spalle, neanche appena appena. Mi fa MALE, capito? Io sono una creatura scorticata a nudo, e tutti voi portate la corazza”. Marina era carne viva, e nonostante la fame di vita non era fatta per la vita. Pretendeva una “irrimediabile tenerezza” da ogni uomo che incontrava, chiedeva loro di essere spalancati, di diventare vivi per lei, e in cambio offriva un amore “di identità”, un amore diverso, specialissimo, difficile, forse impossibile, troppo moderno, ma autentico. “Oh, molte donne vi hanno amato e vi ameranno più forte. Tutte – di più. Nessuna – così”. Non accettava di essere amata per ciò che non era o nonostante ciò che era, e certo non per la donna per bene che avrebbe dovuto essere. Non chiedeva perdono di essere così: ossessiva, altrove, infedele, mutevole, totalmente libera, presuntuosa, selvatica, a volte materna con esseri fragili e vanitosi, capace di dedicare le stesse poesie a uomini diversi, e di dire ogni volta: è la prima volta. A uno di questi amori un giorno scrisse: “Qualcosa è finito. Amo un altro – non si potrebbe dire in modo più semplice, brutale, sincero. Ho smesso di amarvi? No. Voi non siete cambiato e io non sono cambiata. E’ cambiata una cosa soltanto: la mia dolorosa concentrazione su Voi”. Era sincera, era libera, era precisa e spietata anche nell’individuare il nonamore e nel dire addio. “Com’è successo? Oh, amico, come succedono queste cose?! Io mi sono slanciata, l’altro ha risposto, ho ascoltato parole grandi, parole come non ce n’è di più semplici e che forse sentivo per la prima volta in vita mia. E’ un ‘legame’? Non lo so. Io sono legata anche dal vento tra i rami. Dalle mani fino alle labbra – e dov’è il confine? E c’è – un confine?!”.
Ecco, Marina Cvetaeva non aveva confini e amava senza confini. Era trafelata, sola, isolata, continuamente abbandonata e, una volta superata la giovinezza, sempre più costretta a rinunciare a tutto, tranne che a scrivere. A prendere la distanza da tutto e a sentire, sempre di più, l’impossibilità di vivere. Ma l’amore in lei era proprio questo: un modo per andare più vicina alle cose. “L’amore è innanzitutto la nostra lontananza dalle cose, nel migliore dei casi – annullamento di questa distanza, cioè fusione”. Stava stretta in ogni persona, in ogni sentimento, come in una gabbia, e soffriva di avere accanto persone così ragionevoli, così rispettabili, così attente ai confini e alla vita esteriore, che le chiedevano di “sistemare le cose” oppure si dileguavano, sopraffatti dalla sfrenatezza. A lei non importava di essere né ragionevole né rispettabile, per tutta la vita oppose una coraggiosa resistenza alla rispettabilità. Una donna per bene non è una donna. Una donna per bene non è una poetessa. E quando la poetessa Marina Cvetaeva incontrò, per lettera, il poeta, lo scrittore Boris Pasternak, s’innamorò completamente. Era il 1922, lei aveva trent’anni, lui trentadue: diventarono indispensabili l’uno per l’altra. Affini, vicini, irragionevoli, lontanissimi. Forse lui solo riuscì davvero ad amarla come lei chiedeva di essere amata: “Oh, Marina, come vi amo! Con quanta libertà, naturalezza, con quanta preziosa chiarezza! Come vorrei la Vita con voi! E prima di tutto quella parte della vita che si chiama lavoro, crescita, ispirazione, conoscenza”. Lei gli rispondeva: non posso. “Come vivere con un’anima – in una casa? Nel bosco – forse – sì”. Ma lo amava in modo totale, dedito, ininterrotto, lo costringeva a vivere, a scrivere, gli intimava di essere vivo, e voleva, nelle lettere, un figlio da lui. Avrebbe voluto chiamare il proprio figlio, il terzo figlio maschio avuto da suo marito, Boris (“è stato Boris finché nessuno lo sapeva. Dopo che ho pronunciato il suo nome, ho provato gelosia del suono”). Marina Cvetaeva e Boris Pasternak si scrissero per quattordici anni, si sostennero, furono gelosi l’uno dell’altra, furono travolti l’uno dall’altra, essenziali l’uno per l’altra. “Tu mi sei affine tutto, da parte a parte, terribilmente e angosciosamente affine, come io a me stessa – senza asilo, come le montagne. (Non è una dichiarazione d’amore: di destino)”. Lui la aspettava, lei non andava, lei lo aspettava, lui lasciava la moglie per un’altra donna. Come Onegin e Tatiana, come nella “libertà puskiniana” che a loro veniva data in cambio della felicità, dell’incapacità di una vita insieme, ma nella certezza di due vite simili. Marina diceva che Boris era come un lampione per strada, inaggirabile: ovunque si voltasse a qualunque cosa pensasse, lui sorgeva, era lì, dentro i pensieri, nelle poesie, nei libri, nella musica, nelle notti sveglia a scrivere, nella solitudine, insomma in tutta la sua vita non felice e mai abbastanza piena d’amore. “E sempre, sempre, sempre, Pasternak, in tutte le stazioni della mia vita, accanto a tutti i lampioni dei miei destini, lungo tutti gli asfalti, sotto tutti gli ‘sghembi acquazzoni’ – sarà sempre la stessa cosa: il mio appello, il Vostro arrivo”. E non fu mai un tradimento, fu sempre e soltanto: l’amore.

Di Annalena Benini su Minima&moralia blog

lunedì 4 novembre 2019

Marcos Ana

Se un giorno tornerò alla vita
la mia casa non avrà chiavi:
sempre aperta, come il mare,
il sole e l’aria.
Che entrino la notte e il giorno,
la pioggia azzurra, la sera,
il pane rosso dell’aurora;
la luna, mia dolce amante.
Che l’amicizia non trattenga
il passo sulla soglia,
né la rondine il volo,
né l’amore le labbra. Nessuno.
La mia casa e il mio cuore
mai chiusi: che passino
gli uccelli, gli amici,
e il sole e l’aria.
Marcos Ana

lunedì 21 ottobre 2019

Giangiacomo Amoretti



Non va oltre. Si arresta. La misura
è solo questa. Un cerchio stretto. Apnea,
risucchio, strozzatura. Né urla più,
non parla, non sussurra, se perdura
l’interdetto – se in gola gli è premuto
già da sempre il non detto.



********


È misura del corpo,
certa, la mano che lo sfiora e tenta
in lui più fonde morbidezze, più

oscure strette – ne è
misura questa smania
appena rattenuta, questa fiamma

che non brucia – e di notte
questo silenzio altissimo –
ancora, tu lo sai, in te irredento.

domenica 20 ottobre 2019

sabato 19 ottobre 2019

Eugenio Montejo

Un solo amore può salvare tutto,
ciò che se n'è andato, ciò che è partito e più non torna,
i naufragi che emergono dall'oblio
e ci perseguitano in fondo a qualche sogno,
le perdite che in ogni ombra ci insidiano
con dadi neri, schivi alla sorte,
la fiamma che fece notte nelle nostre mani,
l'angoscia, la sofferenza, i singhiozzi,
gli oscuri Titanic del sangue,
quel che nacque per non essere e per un attimo è stato
e il grido azzurro che era il travestimento della chimera...
Tutto il furore, la polvere e la sconfitta
con un amore, un solo amore, presto si salvano:
un solo amore può salvare tutto.
Eugenio Montejo

Giovanna Rosadini

"definirei la poesia il modo in cui chi la scrive sente e traduce il mondo, e chi la legge si confronta ed è trasformato da quest’esperienza." 


Giovanna Rosadini

Ottobre, Miriam Bruni

Ottobre è un mese di bacche,

di baci rubati, di foglie

prestate alle siepi.

Di tagli e colpi di luce a

risibili costi e mèches regalate.


E' un tessuto liquido

E' un tessuto liquido
il sangue
E anche i sentimenti
lo sono: essi legano.
Uniscono
come stoffe
cucite insieme
che non riesci più
a separare senza dolore.
E la Luce, "la luce
è un'onda"; un oceano
di acqua profonda
la verità: non appena
lasci la riva, ecco
- lei ti circonda!

Vieni Re della Pace



Vieni - Re della Pace
Bimbo divino - in fasce
Tu - Via Verità e Vita
risana - la nostra ferita

E' come la saliva

E' come la saliva
il pathos.
Rimonta sempre
-finché sei viva
Da "Così", 2018

Luna

Luna
E' di lui
che risplende, dei suoi baci,
lo sappiamo. Lei fa finta
di nulla, si accaparra
ammirazione, di lontano.
Ma in quell'unico viso
separato dal corpo che guardare
senza orrore possiamo,
non vi è alcuna vanagloria,
infedeltà riguardo al sole:
taci, che è per lui, e solo lui
che lei sorride.
Da "Credere"

Inedita - Mi disgusti

Mi disgusti / Sei bugiardo
Ma non so / Il nostro amore
Dimenticarlo
Ne porto i lividi / E la memoria
L'antica gioia / E lo riguardo