lunedì 6 gennaio 2025

Un pensiero e due poesie di Clarice Lispector


All’estremo di me: lì soltanto sono. Io, l’implorante, io, l’orante, quella che chiede, prega, lamenta. Eppure: quella che canta – che parla.

Parola al vento? Che importa: i venti me le riportano intatte e io le possiedo.
Io, al lato del vento. La collina dei venti che ululano mi chiama. Vado, perché sono una strega.
E mi trasmuto.

Oh, cagnolino, dov’è la tua anima? È presso il tuo corpo? Io sono il mio corpo. E muoio, lentamente. Cosa dico? Dico amore. Nella cerchia dell’amore, lì siamo.


  




Non liberare i cavalli
Come sempre, quando scrivo ho il timore
di andare troppo lontano. Perché? Mi fermo
come se arpionassi le redini di un cavallo
pronto a scattare al galoppo per portarmi
chissà dove. Mi contengo. Perché? A cosa serve
questa rinuncia? Me ne sono accorta quando
ho scritto “per scrivere non devi avere paura”.
Paura di che cosa? Di circoscrivere i giardini
del mio talento? Forse è la paura
dell’apprendista stregone che non riesce a limare
i propri incantesimi. Come una donna che resta
intatta e dona il suo giorno d’amore, voglio
morire integra perché soltanto Dio possa avermi.






Non è la morte a farci male
ciò che ci ferisce è vivere:
la morte è qualcosa d’altro
qualcosa che preme dietro la porta.

La mania dell’uccello di darsi al Sud
prima che arrivi il ghiaccio:
sfida la latitudine più adatta, ma noi
siamo gli uccelli che rimandano il volo.

Siamo quelli che tremano, alla soglia
delle porte, implorano una briciola
finché la neve, la piena di pietà,
non addestri le nostre piume a tornare a casa.


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