Michele Bordoni intervista Donatella Bisutti
la foto di copertina è di Dino Ignani
“Quello che si schiude allora è uno spazio che possiamo chiamare del Sacro”. Queste tue parole nella Nota di poetica in apertura del tuo recentissimo Sciamano. Inediti 2015-2020. Testi 1985-1999 (Delta 3, collana Aeclanum, 2021) lasciano intendere la vocazione “spirituale” della tua poesia, la spinta metafisica che sorregge i versi delle varie raccolte. In apertura della raccolta Sciamano, inedita fino ad ora, si leggono queste parole che trasportano i lettori, fin da subito, dentro la sacertà numinosa del testo: “Quando le nuvole innalzano / templi sull’oceano”. Più avanti nel testo il Sacro viene a configurarsi come una eliotiana convergenza di inizio e fine, di stasi e movimento. Infine, nel testo Cosmica il lettore si trova di fronte a questi versi: “questo cosmo costretto a / tenersi dentro / tutto il suo dolore e la sua gioia / aspettava la nostra voce per cantare”. La relazione con il Sacro non pare dunque una contemplazione immobile, quanto un tentativo di rispondere alla “vibrazione di fondo” del paesaggio sacro. La dimensione della preghiera entra in qualche modo nella idea di poetica che sostiene questi testi? Se sì, in che modalità?
Di Penetrali, plaquette ormai scomparsa curata da Giovanni Tesio, in parte rifluita in Rosa Alchemica, si riportano in Sciamano, che inaugura la bella e importante collana ideata da Eleonora Rimolo, alcune poesie, fra cui una intitolata Preghiera dedicata a Raffaello Baldini, poeta e persona a me molto cara. Questa “preghiera” termina con i versi: “Preghiamo / di non sapere”. La tua è una domanda che nessuno mi aveva mai fatto, ma che mi pare molto pertinente. Prego spesso, anche se non pratico nessun culto e non posso dire di appartenere a nessuna religione, neanche al buddismo a cui in passato mi sono avvicinata. Ma credo nella preghiera come comunicazione. Con che cosa o con chi a dir la verità io stessa non saprei. Ma pregare mi consola e mi dà forza. Prego uno spirito dentro di noi che può all’occasione aiutarci? Prego una me stessa altra? una forza amorosa del cosmo che a volte riesce a manifestarsi? Prego l’Anima Mundi di Yeats? Prego però appunto anche di “non sapere”. Potrà sembrare strano ma, fin da bambina, e moltissimi anni prima di scoprire la meravigliosa Trilogia della conoscenza di Julian Blaga in cui si spiega perché il Mistero deve essere affermato come un dogma, e di leggere e tradurre Edmond Jabès che con il suo sterminato Livre des questions testimonia della necessità di porre domande piuttosto che attendersi risposte, io istintivamente non volevo che venisse svelato il mistero. Sentivo il bisogno, la necessità del mistero. Nei miei giochi infantili, in cui si facevano “magie”, non volevo scoprire che queste magie erano solo trucchi, anche quando sarebbe stato facile farlo, volevo serbare intatta la loro potenzialità fantastica. Non volevo essere furba, volevo essere ingenua. La furbizia non è una caratteristica della Via. Non è nemmeno una scorciatoia. Ulisse nei miei versi è un eroe della domanda, non un maestro dell’inganno. Per questo la preghiera deve prima di tutto salvaguardarci dallo scetticismo, dal materialismo, dal nichilismo. Ci deve mettere in comunicazione con forze sconosciute e implorarle di essere benevole. Così come la poesia, che vuole trarre dal mistero del Silenzio, mistero anche minaccioso, una rosa di bellezza.
La relazione con il Silenzio e con l’Ascolto che ne deriva è un punto cardine, come ribadito nella fondamentale Nota di poetica, della tua poesia. In molti punti emergono dei testi emblematici a riguardo: “La musica del silenzio, quando può essere percepita, è solo rumore” (da Inganno ottico); “Più guardiamo da vicino i nostri gesti, più ci accorgiamo che fra un gesto e l’altro c’è uno spazio vuoto. Questo spazio è il vero significato del gesto. Il nostro agire è così una specie di alfabeto morse in cui il significato è condizionato dagli intervalli, come un filo che corre sotto il tessuto e ne emerge di quando in quando per lasciare un breve segno”; “Osservando l’insetto, l’aria, la nuvola, la foglia: le parole servono essenzialmente a separare, a segnare degli spazi, dei vuoti fra un oggetto e un altro oggetto, fra esistenza e esistenza. Il linguaggio è solo una punteggiatura”. Qui ritrovo alcune ascendenze della letteratura di primo Novecento, su di tutti il Pessoa di Mensagem e il Rilke delle Notizien zur Melodie der Dinge. Visto che l’ascolto va allenato, visto che la pratica della poesia non si risolve nella messa in pratica di una poetica, come si può evitare il rischio della riproposizione in poesia di idee dell’estetica, della filosofia e/o della spiritualità? Bisogna allargare il confine fra “generi” espressivi, abolirlo?
Il Silenzio è un elemento imprescindibile della mia poesia, anzi vorrei dire della poesia in generale. La poesia che leggiamo è quello che è stato possibile sottrarre al Silenzio per dargli forma, è, appunto, una domanda rivolta al Silenzio. Per usare una metafora potremmo dire anche che il Silenzio è un tessuto in cui la poesia pratica dei piccoli strappi, apre spiragli. Infatti una sezione di questo mio nuovo libro si intitola appunto Spiragli. La parola è una manifestazione – in senso letterale – del Silenzio. Silenzio equivale a Tutto, Nulla inteso nell’accezione zen, cioè serbatoio di ogni possibilità, Assoluto, Essere, se si può ancora sdoganare questo termine caro a Hölderlin, che nel suo saggio Essenza della poesia affermava che lo scopo dell’arte consiste nel “rendere presente l’infinito”, una cosa possibile solo se l’opera è una “forma vivente”, un “punto fermo” da cui irradiano alternanze armoniche e opposizioni risonanti. Per Hölderlin la poesia fornisce un accesso privilegiato alla verità perché procede in modo diverso dalle filosofie dell’intelletto o della ragione.
Il poeta mistico fiammingo Erik Van Ruysbeek, in una postfazione al mio poema Colui che viene, ha scritto: “Vista in tal modo, l’arte non è un fine in se stessa, ma un mezzo per rivelare i segreti dell’Essere a se stessi e agli altri. Se no essa rimane sterile come una bella pianta senza frutto. L’arte importante non consiste in giochi di bravura, sia pure riusciti, è al contrario un porta-parola della totalità umana, perché la vita viene sempre prima dell’arte”. E ancora: “Hölderlin, tuttavia, non poté far nulla per arrestare l’avanzata del nichilismo che sarebbe seguito: la grande poesia europea entrerà d’ora in poi in una fase in cui i poeti teorizzeranno l’inutilità e l’assurdità della vita e in cui il piacere e la coscienza dell’Essere, una volta perduti, saranno ormai inattingibili e inesprimibili, sostituiti da una serie di ismi in rapida successione. L’uomo è diventato ormai sulla terra un senza patria (la parola Heimat, patria, è un motivo ricorrente in Hölderlin e carico di nostalgia). Per dirlo in sintesi, colui che perde il significato della vita può solo cercare di salvarsi attraverso un’arte insieme disperata ed estetizzante, divenuta fine a se stessa”.
Forse si può dire che la meditazione è essenzialmente Ascolto. Questa nozione del Silenzio e dell’Ascolto mi è venuta dall’esperienza della meditazione, da un calarmi nell’interiorità, molto aiutata anche dallo studio di Jung e di Hillmann, dallo studio dei simboli e dei miti, quindi non si tratta a priori di dottrine o teorie estetiche o filosofiche: si tratta di una realtà percepita, che non può andare soggetta a mode. Se poi queste nozioni, magari rimasticate, o ben confezionate, sono diventate in certi casi di moda, o al contrario possono ad alcuni apparire qualcosa di superato, devo dire che ciò non mi riguarda. Ci sono cose con cui le mode non hanno a che fare e che non si possono mai considerare superate. Personalmente detesto sia le teorie, sia le mode: un po’ in tutto, ma soprattutto per quanto riguarda la poesia. E trovo avvilente scrivere poesia a partire da una qualsiasi posizione teorica, quasi che la poesia potesse esserne una “dimostrazione”, invece che da una ricerca di ascolto del silenzio interiore e cosmico, appunto. Se questo può apparire presuntuoso, pazienza.
Quanto ai generi, è per me evidente che le separazioni di genere sono assurde, e possono essere solo frutto di una mania accademica e classificatoria. Non ci sono generi nell’arte, c’è un’opera d’arte riuscita o non riuscita, e basta.
La ricerca del linguaggio iniziatico, del linguaggio per pochi adepti è, come tu affermi, una delle tracce che più ti hanno ispirato nella tua poesia. La lunga serie di pratiche meditative che tu citi nella Nota di poetica lo sta a testimoniare. Nel giro di poche pagine si fa anche il nome di Mallarmé, ma non additandolo tra i propri maestri, anzi. È ben noto che il poeta di Valvins era a capo di quella che Fortini avrebbe chiamato la linea dell’oscurità e il tentativo di separarsi dal linguaggio “della tribù” fa di Mallarmé un poeta da leggere sotto iniziazione. Il motivo, tu spieghi, è che il poeta del Colpo di dadi pretese dalla Parola la totalità del Logos, senza rimanere, con la sua Poesia, al di qua della parola (quello che Luzi ha definito “l’eresia del simbolismo”). Non credi che, essendo ormai sdoganate (a livello editoriale, ad esempio) nella cultura popolare, la meditazione, la mistica – sia orientale che occidentale – le pratiche religiose orientali e, di rimbalzo, questa tua modalità di poesia, possano ridursi, nella mente del lettore, a una precettistica oscura, più che a una pratica? Nel senso, non c’è il rischio che l’oscurità mallarmeana, riappaia per troppa consuetudine con una versione depotenziata di questo tipo di spiritualità, che la renderebbe dunque una sorta di rebus da leggere con le giuste chiavi (il rischio della poesia simbolista e, da noi, ermetica) più che un percorso da intraprendere?
Devo dire che non mi trovo molto in consonanza con questa domanda. Infatti non sono interessata a un linguaggio per soli iniziati, altrimenti non avrei mai scritto il saggio La poesia salva la vita, non amo l’etichetta di “intellettuale”, voglio rivolgermi a dei lettori. Da molto tempo ho fatto tesoro di quanto disse René Daumal a proposito dei due livelli che dovrebbe avere un testo: un primo livello abbastanza semplice perché lo legga anche un bambino, ma poi ci dev’essere un altro livello, più complesso e profondo. Ho sempre tenuto presente questo nella mia scrittura, anche perché corrisponde a una mia vocazione naturale. Tanti anni fa alcune mie poesie furono rifiutate da Alfabeta perché troppo “semplici”. Le mie poesie non sono semplici, per capirle bisogna in genere andare in profondità, tuttavia usano un linguaggio apparentemente chiaro, sono lontane dall’oscurità di tanta poesia di oggi che non sembra veicolare alcun significato ma solo una serie di brandelli percussivi come scariche elettriche. Per esempio in Inganno Ottico una poesia di due soli versi come Vivendo: “Contro il vetro / il disegno di un respiro / – prima e dopo, invisibile” potrebbe essere considerata elementare, ma è come un sasso lanciato su una superficie d’acqua immobile: vi dischiude infiniti cerchi. Del resto anche Cristo non ha mai formulato teorie. Il suo non è mai stato un linguaggio per iniziati. Si esprimeva attraverso semplici metafore. Tuttavia quanto ci si è sforzati, nei secoli, di capire fino in fondo queste metafore! Perciò possiamo anche, al livello a cui riusciamo ad arrivare, cercare di seguire il suo esempio.
È vero che per cogliere certi aspetti della mia poesia occorre una certa preparazione culturale e sono gli aspetti di cui stiamo parlando qui, ma è una poesia che si trasmette anche a un lettore non particolarmente colto e intellettuale (infatti la mia poesia ha sempre vinto premi delle giurie dei lettori davanti a poeti magari più istituzionalizzati di me, perché credo trasmetta qualcosa per cui molte persone nel corso degli anni mi hanno ringraziato). Vorrei permettermi di cogliere l’occasione per dire che l’eccesso di intellettualismo ha distrutto, in questi ultimi decenni, il rapporto poeta/lettore di poesia creando una sorta di abisso invalicabile, e per lo più solo i poeti oggi si leggono fra loro, quando si leggono.
Diciamo che la mia poesia è un lavoro letterario, in quanto posso lavorare anche per anni su un singolo testo dal punto di vista del linguaggio, e in quanto naturalmente il mio lavoro di scrittura ha un retroterra di molti studi e letture, di molto lavoro sui testi anche altrui attraverso un’attività di traduttrice di poesia, ma non è tuttavia una poesia “letteraria”, intendendo per letterario qualcosa in cui l’aspetto culturale, l’astrazione teorica e l’artificio intellettuale prevalgono, alla fine lontana da quelli che io ritengo essere i veri valori della poesia e della vita.
L’Oriente, l’Estremo Oriente in particolare, è molto presente nel tuo libro. Oltre alla meditazione, di cui già si è parlato ampliamente, mi sembra di poter ritrovare l’utilizzo di una forma di poesia particolare, ovvero lo haiku. Alcuni brani di questo tipo sono: “Primavera ritorna / ma non / lo stesso fiore”; “Il vento di dicembre / stacca / l’ultima foglia di acero rosso / davanti al padiglione d’Oro” (poesia intitolata Kyoto); “Il fiore che si apre / disserra l’ombra. / Poi l’ombra / di nuovo lo colma”. Si può parlare di haiku in senso proprio o la mia percezione di vicinanza a quel genere di poesia proviene dalla brevità della forma e dall’impressione di movimento che trovo all’interno?
Sì, l’incontro col buddismo zen ha cambiato la mia vita e di conseguenza ha imbevuto la mia scrittura, perché la ricerca spirituale, esistenziale, per me è sempre andata di pari passo con la ricerca della scrittura alimentandosi una dell’altra. Quindi ritengo che senza questa chiave zen, buddista e taoista, non si possa capire appieno la mia poesia. Tuttavia non vorrei mettere l’accento su questo in maniera totalizzante ed esclusiva. Per quanto riguarda gli haiku non ho mai voluto scrivere degli haiku. Penso che oggi la moda degli haiku sia diventata un po’ ovvia, noiosa. Tutti vogliono scrivere haiku come a scuola una volta si scrivevano pensierini. Si scrivono pretesi haiku su qualsiasi noterella sciocca. L’haiku invece è un’illuminazione, più che filosofica, mistica, che è la spontanea conseguenza di una vita interiore, di una ricerca spirituale approfondita e intensa, scandita anche da rigide regole che si riflettono appunto nella versificazione precisa e rigorosa degli haiku. Certo molte mie poesie sono sostanzialmente simili a degli haiku pur non avendone la forma metrica, ma solo perché anch’io ho seguito una strada di ricerca mistica in cui la contemplazione della natura mi ha portato delle piccole illuminazioni. L’haiku infatti non è una descrizione, ma una rivelazione il cui significato va ben oltre.
Quanto all’importanza del pensiero orientale nella mia scrittura vorrei bilanciarla però, come dicevo, con il grande spazio che vi occupa il Mito, alludo agli antichi miti greci, e che è fondamentale soprattutto nell’ultimo libro, che sto ultimando, un grande poema sul destino dell’uomo. Ma più in generale anni fa mi ero proposta di scrivere un saggio – progetto rimasto incompiuto – che desse conto di quella corrente sotterranea di pensiero analogico, mistico, esoterico che percorre, come in Oriente, ma sotterraneamente, tutta la storia dell’Occidente, dagli antichi misteri greci, su su attraverso l’ermetismo, il neoplatonismo, l’alchimia, fino ai rosacroce, e vi si possono includere anche i grandi testi mistici cristiani, in quanto i mistici di tutte le epoche e di ogni parte del mondo, qualunque fosse la loro religione, hanno sempre vissuto e descritto le stesse esperienze fondamentalmente misteriche e anarchiche. Tuttavia in Occidente si è trattato per lo più di un fiume carsico: correnti represse, censurate o annientate da un dogmatismo religioso alleato al potere temporale e, in seguito, messe al bando dal pensiero illuminista. Di tutto questo credo stiamo vedendo oggi alcune terribili conseguenze, dopo il fallimento sia dell’uno sia dell’altro.
Poeti come Blake, Hölderlin, Yeats, Rilke sono stati per me fondamentali e tra gli italiani Dino Campana. Tra i contemporanei, soprattutto Edmond Jabès, che ho per prima introdotto in Italia, e poi tradotto in piccola parte – la sua opera è sterminata – per l’Almanacco dello Specchio prima e per Lo Specchio dopo.
Nella mia poesia credo conti comunque molto anche un’influenza culturale del centro-nord Europa che già Pier Vincenzo Mengaldo aveva riscontrato in Inganno Ottico in una sua recensione su Panorama. Il mondo nordico è sempre stato per me fonte di grandi suggestioni nei suoi aspetti più irrazionali, fiabeschi, avvolti da nebbie e da ombre, con una forte presenza della morte come nei film di Bergman.
La compresenza e complementarità di Yin e Yang è un pilastro, forse il pilastro, dell’estetica orientale. Uno degli aspetti in cui questo principio passa fino a noi occidentali è quello della compresenza tra visibile e invisibile (penso a un certo Rilke, ancora, o a Francois Jullien). Molti tuoi testi fanno riferimento – anche implicitamente – a questo aspetto: “Senza forma, la prende dal cambiamento di forma che impone agli oggetti. Cerca nel visibile qualcosa che lo contenga, ma non è mai a sua misura” (Vento) oppure, sempre da Inganno Ottico, “Un’architettura di luce finché l’acqua la sostiene ed essa può espandersi, pulsare, galleggiare, sorretta da milioni di gocce. Ma senza questo contrappunto invisibile che scandisce il vuoto, la medusa è solo una piccola massa flaccida posta dall’estremità di un remo sulla sabbia della riva, un sacchetto vuoto che si lascia andare da tutte le parti, una disgustosa poltiglia” (Medusa). Più in generale la compresenza degli opposti è un dato centrale, anche dei tuoi testi inediti (penso proprio a Opposti). Ci sono altre chiavi culturali per intendere questa compresenza? L’immagine del respiro della tradizione buddhista può rientrare in questo novero?
Ritengo che, al di là della saggezza taoista, la compresenza degli opposti faccia parte dell’essenza stessa della poesia, che per sua natura è polisemica. Mentre il pensiero logico crea delle antinomie ed è in realtà, nella sua radice, un pensiero conflittuale e come tale si può vedere in esso l’origine delle guerre, dello sfruttamento sociale, del potere con tutti i suoi abusi, la poesia è analogica, cioè procede per associazioni. E infatti, invece di dividere, associa. Questo risulta chiaro dalla percezione della realtà come ci giunge attraverso il nostro corpo, percezione sensoriale squisitamente analogica, come dimostrò così bene Proust con la sua madeleine, e da questa realtà analogica hanno per lo più preso le mosse i miei testi. Anche qui non c’è stato a monte un pensiero teorico: essi sono nati da una semplice constatazione. Forse il poeta è semplicemente qualcuno che fa funzionare soprattutto la parte analogica del proprio cervello, attraversa il mondo con un piccolo periscopio stando immerso nella sterminata acqua analogica. Per esempio la poesia Opposti, da te citata, è nata nell’isola portoghese di Madeira nella quale ho vissuto a lungo e in cui era molto forte il contatto con una natura ancora selvaggia e in particolare il rapporto con la vastità di un cielo sospeso sopra l’oceano. Lì guardavo il sole, guardavo la luna, vedevo che giorno e notte facevano parte di un movimento unico, continuo, che niente interrompeva, se non il nostro desiderio – o necessità – di catalogare e dominare la realtà attraverso il linguaggio come forma di potere. Il linguaggio – quel “linguaggio quotidiano” in cui parlo in una lunga poesia dedicata a Giampiero Neri e intitolata Un giorno di pioggia come tanti – spezza la continuità del cosmo. La poesia la ricompone. In essa, come in un nido, gli opposti se ne stanno uno accanto all’altro, in pace, vicini, nessuno dei due rinunciando alla propria identità.
La poesia, linguaggio ossimorico e polisemico per eccellenza, ci dà una conoscenza della complessità della realtà che nessun linguaggio logico ci potrà mai dare, o meglio ci potrà mai far sentire. Perché la poesia ci fa “capire” attraverso un organo unico che la società in cui viviamo continuamente spezza dividendolo in due tronconi, e che si chiama corpomente o, se si preferisce, mentecorpo.
Un’ultima domanda sulla cultura orientale (o meglio, sugli argomenti che a me richiamano pratiche orientali). Il tuo particolare modo di versificare, pieno di vuoti e di pieni, di alternanze fra bianco e nero, più che ricordarmi il Colpo di dadi mallarmeano, evoca i quadri della pittura cinese e giapponese. I versi, quasi fossero quadri di Watanabe o di Huan Ma, si srotolano secondo un linguaggio morse di pieno e vuoto. Nella creazione di questo vuoto ho ritrovato il taglio della tela di Fontana, specie nei testi tratti da Violenza. Emblematica è anche la poesia che recita:
Il corpo è un vaso.
La morte lo svuota.
C’è una tensione tra immagine e parola, tra scrittura e disegno, come nel fondamentale Montagne di Inganno ottico: “La montagna è scrittura. Come la scrittura è violenza che si cristallizza nell’immobilità”. L’atto scritto è un atto di violenza? Ti senti più scrittrice o pittrice?
In realtà credo che più che la pittura cinese e giapponese, all’origine delle alternanze di vuoti e di pieni nei miei testi ci sia, oltre naturalmente un’influenza yin e yang, soprattutto una lezione che ho appreso da poeti come Jabès, Luzi e Caproni, i quali tutti “giocano” col bianco della pagina. Ricordo anni fa di aver dovuto far rifare quattro volte le bozze del libro di Edmond Jabès La Memoria e la Mano, uscito nello Specchio, per ottenere che fossero rispettate queste aeree spaziature, questi spostamenti a volte verso destra a volte verso sinistra di alcuni gruppi di versi. Non ci sono più i vecchi, colti tipografi che spesso erano artisti bizzarri, sono stati sostituiti dai computer che vogliono per loro natura imporre l’omologazione: tutto a sinistra o tutto a destra, è poi nata l’orribile idea di scrivere delle poesie “centrate” come schematici alberelli di Natale, in cui un elemento costitutivo fondamentale della poesia come il ritmo viene completamente snaturato. Le poesie “centrate” la dicono lunga sul preteso “uomo nuovo” di oggi.
In una poesia come Smania o come Pernice di Luzi, gli spazi creano un movimento fra l’alto e il basso, uniscono cielo e terra, il ritmo si fa immagine, l’immagine si dissolve in puro ritmo. Penso tuttavia piuttosto che l’importanza degli spazi bianchi, degli stacchi irregolari nella pagina, sia quella di aprire degli squarci nel Silenzio, come dicevo prima, e al tempo stesso alonare le parole di Silenzio. Lo scrivo con la S maiuscola perché per me Silenzio è uguale a Mistero, ad Assoluto, parola più che mai oggi bandita nel mondo del relativo. Io in realtà credo più che in un Assoluto, in un “Relativo assoluto”, nozione in cui mi conforta la fisica quantistica che, sia pur da ignorante, ho tenuto tuttavia più volte presente nei mie testi e anche in alcuni miei saggi critici, per esempio quello sulla poesia di Giampiero Neri pubblicato di recente su Italian Poetry: è quanto ho cercato di esprimere in un’altra poesia già citata, Il passo, ispirata a un brano di musica contemporanea, che termina con l’affermazione paradossale: “L’infinito finisce”. Su questo tema di un infinito, di un assoluto destinato a scomparire sono tornata più volte: anche nella poesia da te citata, Cosmica, in cui parlo dei “miliardi di stelle / destinati a scomparire”, considerando che le stelle nel nostro immaginario hanno sempre avuto, almeno prima dell’astrofisica, una connotazione di eternità. Lo stesso in una poesia di Rosa Alchemica intitolata appunto Eternità, in cui si allude alle parole come a “un firmamento più effimero / di quello delle stelle” perché “sola / eternità è la docilità che si consuma”. Mi domando: questo “Assoluto Relativo” o “Relativo assoluto”, così moderno, così attuale, corrisponde forse al πάντα ῥεῖ di Eraclito? Non è l’Essere, bensì il Divenire a darci una nozione di Assoluto? E la poesia coglie e fissa questo πάντα ῥεῖ, questo filo d’erba di Char, questo volo di un’effimera, trasformandolo in Assoluto, cogliendone l’insita essenza di eternità.
A parte questo non mi sento per niente una pittrice anche se mi piacerebbe tanto esserlo. Penso che i pittori in genere possano essere più felici dei poeti. Nella pittura il contatto con la materia, la manualità sono forti. Questo unisce anima e corpo, crea unità psichica e quindi anche salute psichica. Nella scrittura la fisicità è debole, anche se anni fa per le edizioni Archivi del Novecento di Luigi Olivetti ho ideato e curato una collana intitolata A mano libera, in cui ho pubblicato testi scritti a mano da grandi autori come Luzi Spaziani Adonis.
Quanto alla violenza della scrittura o alla scrittura come violenza, non può non esserci violenza all’origine di tutto quanto è vivo. Il parto è violenza. Il sesso, almeno nella sua prima pulsione, è violenza. La vita è innanzitutto una manifestazione di violenza, Il Big Bang è violenza, la scrittura è violenza in quanto assale il silenzio per lacerarlo.
La sezione Animalia in Inganno ottico è un curioso bestiario metafisico, in cui gli animali vengono ad essere dei geroglifici da interpretare come forme dello spirito, come metafore dell’umanità. Sono veramente questo o c’è anche una simbologia archetipica al di sotto?
Questo Bestiario ha prima di tutto una valenza psicologica: è nato essenzialmente dall’osservazione e dalla consapevolezza di pulsioni e stati d’animo miei o di qualche persona a me particolarmente vicina in un periodo di forti tensioni della mia vita. Queste pulsioni sono diventate raffigurazione, quasi una serie di emblemi. Lo struzzo e il coniglio la paura, il ragno la pretesa di un controllo intellettuale sulla realtà, l’ippopotamo la lotta interiore tra materialità e spiritualità, mentre Simili agli dei è un’analisi della crudeltà, i pesci sono una figura del sogno e dell’inconscio, il pipistrello che appare invece in Penetrali è sempre un’immagine dell’inconscio sotto forma di incubo, i gabbiani possono essere letti come un’immagine di un rapporto affettivo e dell’irrisolta contraddizione fra sicurezza e libertà, fra quotidianità ed evasione. Tuttavia giustamente tu pensi che al di là di queste metafore ci si trovi davanti qui a una simbologia archetipica. Non ho tenuto presente nessuna simbologia riconosciuta al riguardo, benché sia stata un’appassionata lettrice in particolare del ponderoso Bestiare du Christ di Louis Charbonneau Lassay, ma mi sono sforzata di dare ad alcuni animali una valenza metafisica, filosofica, esistenziale, in particolare all’elefante e alla giraffa, ma anche allo stesso ippopotamo, al cammello, la medusa, il topo. Valenza che tiene conto di quelle corrispondenze fra mondo animale, vegetale e minerale che mi hanno sempre affascinato e che ne fanno un unicum speculare al di là di ogni divisione. Anche in questo caso corre in filigrana la convinzione di una rispondenza fra macrocosmo e microcosmo, che forse sì, è la radice stessa del Mito.
Almeno due testi parlano di un io che scrive poesie ma che non coincide con la tua persona. Più che al rimbaudiano Io è un Altro, ho pensato a delle vere e proprie esperienze medianiche: “Qualcuno mi abita / che non sono io. / Qualcuno più grande / che non conosco / a cui devo far posto”; “C’è una me che scrive poesia / io non so chi sia / è lontana / distante / si affaccia ogni tanto / e mi costringe / ad ascoltare / il suo strano canto”. “L’essere scritti” di rilkiana memoria è da intendersi veramente in maniera medianica o, forse, agisce una visione mistica della scrittura “sotto dettatura”?
A questo proposito vorrei di nuovo ricordare, in Sciamano, la poesia intitolata Un giorno di pioggia come tanti in cui alludo all’ispirazione come a “un ritmo / che corrisponde profondamente a qualcosa / dentro il mio corpo”, qualcosa contro cui si infrange il “linguaggio quotidiano”, essendo un linguaggio totalmente altro. Sul carattere spesso medianico – e a mio parere costituzionalmente medianico – della poesia, e, in particolari occasioni della mia poesia, ho scritto un saggio per il libro di Vincenzo Ampolo e Luisella Carretta La transe nell’arte, a proposito della genesi di un altro mio testo, cui ho già fatto cenno, il poema mistico Colui che viene. Hai fatto bene a pensare a delle vere e proprie esperienze medianiche, per me particolarmente forti in Inganno ottico e in Colui che viene, ma sottese anche ad altri testi, tra cui Hereafter in Rosa Alchemica.
Non mi sono mai riferita consapevolmente all’“Io è un altro” di Rimbaud, perché per me il testo poetico non deve mai porsi in una posizione di consapevolezza volontaria, in qualche modo programmata (penso per esempio all’aspetto fortemente volontaristico, nonostante le apparenze, della “scrittura automatica” di Breton), ma nascere in qualche modo spontaneamente, sia pure da un terreno, diciamo, preparato all’uopo. Ho sempre costruito la mia poetica a posteriori, desumendola dall’atto della scrittura stessa, da come essa è avvenuta, per cui per me la poetica è essenzialmente un’esperienza. Credo sia fondamentale, attraverso la scrittura poetica, la scoperta di un io che non è quello limitato e circoscritto della nostra vita quotidiana, e nemmeno quello nutrito di letture e di cultura, frutto di una speculazione intellettuale, ma un io diverso che rappresenta se vogliamo uno stato di coscienza altro, più sottile e del tutto inconsapevole, almeno nel momento del suo primo manifestarsi. Perfino il mio testo più zen, Inganno ottico, è stato – strano miracolo – un affioramento spontaneo, ma appunto del tutto impregnato di pensiero zen, avvenuto prima che io mi avvicinassi alla pratica, di cui allora non sapevo nulla. E di questo testo, di cui percepivo allora solo confusamente la verità, un maestro zen ebbe poi a dire che, se ne fossi stata invece davvero consapevole, avrei ottenuto l’illuminazione. Ma certo ritrovo pienamente la mia esperienza nelle parole usate da Rimbaud nella lettera a Georges Izambard. Rimbaud si esprime molto chiaramente: “È falso dire: Io penso: si dovrebbe dire io sono pensato… IO è un altro. Tanto peggio per il pezzo di legno che si ritrova violino, e sprezzo agli incoscienti, che cavillano su ciò che ignorano completamente!».
Del mio testo Colui che viene Mario Luzi ebbe a scrivere che: “La vibrazione di questo timbro dal potere unificante è senza dubbio di natura religiosa, più precisamente profetica; ed ha più di una volta splendide fedeltà ai grandi modelli testamentari dal Cantico ai Proverbi”, riconoscendo a questo testo la qualità di testo “ispirato”. Sia in questo caso sia nel caso di Inganno ottico, scrivendo ho avuto la certezza, mentre lo stavo scrivendo, che quello che andavo scrivendo fosse un messaggio di verità da trasmettere. Certo questo può parere presuntuoso ma lo dico tuttavia con umiltà. Purtroppo oggi parole come verità, conoscenza, assoluto, mistero sono bandite o ridicolizzate e quindi non ho la pretesa di convincere nessuno. Si dà il fatto che questi testi hanno attratto molte persone e io, rispetto a essi, provo uno spirito di servizio che fa parte della mia educazione zen e più in generale buddista. Dell’ispirazione ho parlato nel mio libro La poesia salva la vita, collegandola con l’inconscio junghiano in cui credo fermamente. Purtroppo i poeti di oggi per lo più si rifanno al “laboratorio” di Valéry – poeta che non amo, come amo poco gran parte della poesia francese imbevuta spesso di eccessiva “letterarietà” – e questo rischia di rendere la loro poesia astratta e intellettualistica, in poche parole, ai miei occhi, un’antitesi di quello che dovrebbe essere la poesia, che deve venire dal cuore. Anche per fare questa affermazione – oggi come oggi – mi rendo conto che ci vuole coraggio e non avere timore di essere ridicolizzati. Io non so se vengo ridicolizzata, ma so per certo che da molti contesti “di potere” sono esclusa. Ne è esclusa anche una grande poetessa come Fernanda Romagnoli, e questo insieme mi dispiace e mi consola. Tenzin Palmo, maestra del buddismo tibetano, ha scritto: “Quando pensiamo “io” indichiamo il centro del petto, non il cervello… ecco perché visualizziamo la divinità nel cuore”. Il famoso filosofo persiano sufi Rūmi, vissuto nel XIII secolo, ha scritto: “L’unica bellezza duratura è la bellezza del cuore”.
“Lascia che tutto ti accada” ha scritto Rilke che, come tutti i grandi poeti, per lo meno quelli che io amo di più, è stato un grande visionario. Il carattere visionario e profetico dovrebbe essere essenziale alla poesia, ma oggi la si vuole per lo più ridurre a ben poca cosa, a un balbettio informe e senza significato che pretende di dare conto, con una ripetitività ossessiva e un bel po’ di narcisismo e di autocommiserazione, di una mancanza di senso della poesia speculare a una mancanza di senso della vita dell’uomo. Per questa strada si arriva alla morte della poesia. Ma per fortuna gli stessi poeti che paradossalmente non credono nella poesia pur pubblicando numerosi libri di poesia, non possono decretare la morte della poesia perché la poesia, medianicamente, va al di là di loro.
Dicendo questo risulto datata? La storia dell’uomo, finora almeno, è stata fatta di corsi e ricorsi.
Una chiave di lettura di Sciamano – ipotizzo – potrebbe essere quella alchemica. Seguendo il libro si nota come la Grande Opera della sublimazione, del passaggio di stato (che è il fine dell’arte – come ricordi in un testo di Inganno ottico in cui parli della “sconvolgente creatività della morte, cui l’arte per sua suprema aspirazione si avvicina”) è ripercorso al contrario o, meglio, è rintracciabile non seguendo i consueti passaggi nigredo, albedo, citrinitas e infine rubedo, ma viceversa.
La rubedo, in realtà, non è esplicitamente riportata nel testo (c’è solo un accenno al rosso in Cammini I). L’elemento solare, dorato, tipico della citrinitas, è in apertura di libro, quel sole “piccolo e smarrito” la cui “ferocia è solo il segno / di una ferocia più grande”. L’albedo, che è associato all’infanzia, alla purezza, alla luce lunare, è presente nella sezione Infanzia. Mi sembra poi emblematico che questa purezza, questa fanciullezza cominci a sporcarsi proprio in coincidenza con le nuvole che coprono la luna nella poesia Il Chiaro di luna di Beethoven per poi passare, nella stessa poesia, alla nigredo (“il pianoforte, buio e verticale, taceva”). Il nero è associato alla frammentazione, alla materia putrefatta, alla poltiglia e alla morte. Dopo Infanzia le sezioni presenti in Sciamano sono proprio Un mostruoso miracolo, sezione dedicata alla morte, e Rappresentazioni, una serie di poesie molto diverse dalle altre, le quali sono caratterizzate da un realismo quasi macabro. Il penultimo testo, Estetista (un fatto di cronaca) parla di uno squartamento (la frammentazione della nigredo): “Lui la strinse forte / poi fece a pezzi il suo corpo / meticolosamente”. Non a caso, la poesia successiva parla della poltiglia, del fango e si intitola Fango-variazioni. Il fatto che “è nel fango che Dio crea la propria immagine” sembra un monito a rileggere al contrario il libro, a compiere la rubedo ribaltando l’ordine di lettura. È una buona lettura o si è lavorato troppo di fantasia?
Trovo molto affascinante questa interpretazione della mia poesia, del mio cammino poetico. In realtà non era mai stata fatta, nemmeno da me, ma è vero che mi sono interessata molto, anni fa, all’alchimia, benché non possa certo considerarmi né una vera studiosa né un’esperta di scienza alchemica. Ma non è un caso che uno dei miei libri di poesia più importanti abbia per titolo proprio Rosa alchemica e in esso, una lunga sezione in forma teatrale, intitolata L’amor/rosa e vagamente ispirata a una favola esoterica di Maeterlinck, può giustamente essere vista come un percorso alchemico. In Rosa alchemica, recentemente tradotto in tedesco da Franziska Raimund per le edizioni del PEN Club di Vienna, la poesia che dà il titolo al libro recita: “Il breve spazio dell’eterno / nel cuore della rosa / specchio di fiamma al sole / fuoco d’acqua che posa / con grazia sullo stelo.” Credo che questi versi concentrino anche l’imprescindibile qualità ossimorica della poesia: breve / eterno; specchio (elemento freddo) / sole; fuoco / acqua; fuoco / grazia. Il rapporto fuoco / acqua in particolare è al centro dell’esperienza e della pratica alchemica, Rappresenta simbolicamente l’opposizione fra il principio maschile e quello femminile che deve essere ricomposto in unità. Alla luce di questo si potrebbe dire che la poesia in generale, come io l’intendo, e nel suo piccolo la mia, sono un tentativo di cammino verso questa unità, che tuttavia non viene mai ricomposta del tutto, perché non può esserlo. La poesia non trova la pietra filosofale, si limita a indicare il Mistero, di cui Julian Blaga parla come di una necessità imprescindibile per l’uomo. Questo oggi, in un mondo che accanitamente rifiuta il Mistero – e lo vuole in ogni modo distruggere attraverso la scienza e la tecnica – mi sembra un’indicazione fondamentale. La poesia è meditazione e anche incessante opera alchemica, il Magnum Opus, rielaborazione e trasformazione della materia – sensazione emozione pensiero rapporto dell’uomo con sé e con il mondo – attraverso la parola, il Logos. Logos che rimane precluso, come la pietra filosofale tanto vagheggiata e affannosamente cercata. Questo è forse quello che diceva anche Mallarmé e che da allora uno stuolo di poeti si affanna a ripetere in forme meno squisite: il fallimento della parola. E allora perché scrivere? la poesia non è un lamento narcisistico e autoreferenziale, ma appunto un Magnum Opus destinato a una gloriosa sconfitta non perché la pietra filosofale non esiste, ma perché raggiungerla ci è precluso. A questo forse accenna un’altra breve poesia di Rosa alchemica: Piccola apocalisse di neve, in cui è di nuovo presente l’opposizione fuoco e acqua (sotto forma di neve, cioè di freddo), con allusione al Graal in quanto pietra filosofale, ma il finale smorza il tutto in una sorta di eterna sera che illumina il paese dei morti, allontanandola definitivamente.
Quanto alla rubedo, in verità il colore rosso non è forse molto presente in questo libro ma lo è nella mia poesia, basti pensare a Natività di Rennes, sempre in Rosa alchemica, in cui il rosso viene ripetutamente scandito: “il rosso / il rosso / il rosso” e associato al sangue, al buio, alla crisalide e il passaggio esplicitamente indicato è quello dalla nigredo alla rubedo. Anche quello del sole (citrinitas) è un motivo ricorrente, sia nel testo in prosa Diario di Saorge (Rosa alchemica), testo cosmico per eccellenza: “Dall’orgasmo del sole, un’eiaculazione di stelle”, sia nella raccolta Dal buio della terra, dove è associato alla nigredo in Attimo: “La morte coglie l’attimo assente in cui l’occhio / sfavilla nel gioco / colpisce quando il ragazzo alza il capo indifeso / incontro al sole, e a terra sparge in rossa pioggia / il suo manto regale”. Il rosso è anche presente in uno dei Canti atlantici, il Canto del fuoco, sempre in Rosa alchemica, che riprende incorporandola una citazione da Eraclito: “Il dio muta come il fuoco” e dove il percorso alchemico è abbastanza chiaramente indicato nei tre versi finali: “il nostro fuoco interno ci consuma / ma dal nero di uno spazio già rovente / pallida spunta una primissima foglia”. La citrinitas trionfa poi in una poesia degli Inediti di Sciamano, Lode del corpo: “il giallo entra dentro di me / invade la costa del monte / scivola verso valle invade / il campo e l’occhio / invade del suo giallo il cielo / stilla miele nell’aria”.
Come hai giustamente osservato si tratta forse nella mia poesia di un percorso alchemico anche all’incontrario, che va dalla rubedo verso la nigredo e infatti il sole che in Rosa alchemica è “ombelico” (“Ogni sole ombelico”), in Sciamano diventa ancor più violento che nel Canto del fuoco tanto da essere definito, in Alba sull’oceano, alla fine debole eppure feroce: “un sole piccolo e smarrito / e la sua ferocia è solo il segno / di una ferocia più grande”. Forse questo andare verso la nigredo invece che verso la rubedo, come tu hai giustamente osservato anche parlando di alcune mie poesie ultime che definisci “caratterizzate da un realismo quasi macabro”, dipende dal fatto che la mia attenzione, in questi ultimi anni, anche per aver lasciato l’isola di Madeira dove mi affascinava soprattutto l’oceano, è stata diretta, più che alla contemplazione del cosmo e alla meditazione, a una realtà contingente che sempre più è andata prendendo le distanze dai valori che ho sempre coltivato e in cui ho sempre creduto, e quindi la mia riflessione si è spostata piuttosto sull’inadeguatezza della sorte dell’uomo oggi. Non per niente nell’ultimo testo degli Inediti il fango da cui l’uomo sarebbe stato creato da immagine di Dio si trasforma nel fango dei pasticcini di un Mac Donald. L’arancia d’oro che si vorrebbe afferrare si dimostra sempre meno afferrabile. Una specie di paralisi ha colpito il cuore dell’umanità? Proprio come l’ignota protagonista de L’Arancia d’oro che si limita a guardare dalla finestra e non può più camminare e scendere in strada. Un po’ quello che ci sta succedendo col covid?
A volte viene meno la fede anche a me, come in Mendicante, in cui la rivelazione dell’inadeguatezza, al di là delle buone intenzioni, è totale.
Tuttavia ho ripubblicato in questi mesi drammatici, con la Casa della Poesia di Monza di cui è presidente Antonetta Carrabs, un Manifesto della Nuova Poesia umanista, che era già apparso sull’ultimo numero della mia rivista Poesia e Conoscenza, e nel quale mi propongo di indicare come la poesia, come da me intesa, possa indicare una via di salvezza nel mondo di oggi.
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