venerdì 25 aprile 2025

Di Anna Polin

 

L'appartenenza ad una famiglia, un gruppo sociale, una nazione, una cultura è ciò che crediamo ci determini. In parte è così, nel senso che parliamo e pensiamo attraverso una lingua, creiamo dei legami che si fondano sulle nostre prime esperienze affettive, ci battiamo per una o l'altra causa in base a ciò che il nostro vissuto ci fa definire giusto o sbagliato. Ma se guardiamo più in fondo ci accorgiamo che tutto ciò che ci definisce, ovvero l'appartenenza, ha in sé un paradosso. Per convalidare la mia appartenenza devo continuamente confermare me stesso attraverso azioni e pensieri che mi permettono di restare all'interno del conosciuto.


In pratica ristabilisco a priori un ordine che mi è stato trasmesso senza verificarne le fondamenta. Per fare un esempio  potremmo dire che chi ha conosciuto la freddezza emotiva la ripeterà perché questo lo confermerà  nella fedeltà alle modalità introiettate.

Ognuno di noi ripete ciò che ha vissuto, soprattutto se si tratta di  contenuti inconsci.

Cosa succede a chi cerca di fare qualcosa di diverso da ciò che ha introiettato?

Proverà un senso di colpa viscerale che lo immobilizzerà sul confine.


Attraversare il limite del conosciuto è la proibizione fondamentale che ognuno di noi porta in sé senza saperlo. In qualche maniera percepiamo che andare oltre richiede uno sforzo che supera le capacità individuali, ed in un certo senso è così. Se pensiamo ai momenti in cui siamo stati colti da un' ispirazione, una poesia, un incontro, un paesaggio, ci rendiamo conto che il rapimento si manifesta in uno spazio neutro, vivo, sconosciuto. In quei momenti passato e futuro hanno poco significato ed anche lo spazio assume una forma relativa. E' il motivo per cui le grandi opere d'arte sfuggono al tempo. Pensiamo a Mozart, Botticelli, Dante, sono opere concepite molti decenni indietro, eppure sfuggono al tempo.

Questo accade perché chi le ha create ha superato se stesso materializzando un'appartenenza all'umano che lo supera e lo include. L'arte ci indica una strada e ci permette di spiegare meglio cos'è un appartenenza risanata. Perché sia chiaro è necessario comprendere come agisce il senso di colpa. Ogni volta che ci si trova sul limite del conosciuto il senso di colpa farà si che io crei un azione autosabotante.

La  colpa è un meccanismo di mantenimento dell'io, poco importa se ci mantiene in un'individualità soffocata, disturbante, sofferente. Lo scopo della colpa è mantenere intatta l'appartenenza al proprio mondo individuale e separato. La cosa incredibile è che  l'azione autosabotante in genere viene compiuta in modo da sembrarci logica e corretta, ci sembra così perché la vediamo dal punto di vista della nostra appartenenza individuale. In pratica mentre ci facciamo lo sgambetto siamo certi che stiamo facendo la cosa migliore per noi stessi. Questo è il paradosso dell'appartenenza.


Ecco perché per attraversare il limite è necessario ampliare la propria umanità includendo anche ciò che non si conosce, ciò che ci rapisce. Non è mai un'azione dell'io il superamento del confine. Solo facendosi portare da ciò che  tocca nel profondo, che non appartiene alla dimensione dello spazio e del tempo, è possibile oltrepassare il confine. Chi supera il proprio limite lo riconosce perché si scopre abitato dalla stessa bellezza senza tempo che i grandi artisti hanno materializzato. Forse non avrà bisogno di rappresentarlo attraverso un'opera, non sarà necessario, perché oltre il confine si scopre che ogni essere umano è bellezza vivente reso tale da quelle stesse caratteristiche che lo soffocavano quando servivano a mantenere un'appartenenza limitata. Non è ciò che ci è accaduto di difficile nella vita che ci impedisce di vivere in una dimensione aperta, semplice, costantemente rinnovata, è il voler mantenere ciò che ci ha ferito immobile, intatto, indiscutibile. Aprirsi al nuovo che si crea istante dopo istante presuppone uno sforzo cosciente.


Bisogna avere il coraggio di restare sul confine più e più volte. La bellezza senza tempo ha bisogno di farsi amica della colpa, riderci insieme, accorgersi che  c'è un tempo per retrocedere ed un tempo in cui "essere niente" è la vera poesia. 






Mentre attendo che la vita arrivi, di Marco colletti

 

Mentre attendo che la vita arrivi,

mi libro in visioni dal folgorante
conforto: le calde nuvole che
avvolgono epifanie di santi
immacolati, il rubino dei manti
che schioccano al vento
le speranze degli umili,
inginocchiati negli interstizi
del reale. Sole e colombe,
i raggi disegnati dalle loro ali,
il rapido flutto del pulviscolo
che gioca con l’ombra e tutto sfoca,
mi appaiono come giganti
di salvezza al grido muto,
alla sofferenza che non ha
più parola, se non questa
quieta indomabile poesia.


Marco colletti

La voce del silenzio, di Marco colletti


Morbidi incanti mi cucivano nella gola
le parole del silenzio. Il mio tacere
si faceva suono attraverso i miei occhi
e gocciolava nella campagna, raccogliendo
dentro di sé il rauco brusio degli stormi.
Non bastavano più i corvi a filtrare
la mia voce del silenzio e mi spezzavo
le ciglia ad una ad una per poter vedere
meglio, per far parlare i miei occhi
dappertutto. Se le mie dita si fossero
allungate, avrei toccato l’orizzonte
e non sarei più tornato. Ora non sarei qui,
ma a parlare chissà dove, senza
la mia voce, rimasta dentro il tempo.

Marco Colletti
n

domenica 20 aprile 2025

LE NUVOLE, di Emilio Capaccio

 

Che cosa vogliono da me queste nuvole
così bianche e frastagliate
frivole d’aria, lampanti di luce?
In che lingua d’altitudine mi parlano
quando passano nei caldi planisferi
dell’estate?
O, invidio le nuvole
Il loro tempo che non segnano gli orologi
Vanno agli angoli dei cieli dove finisce ogni età
assegnate a un ordine di precarietà universale
non temono decreti di venti
non temono dissolvenze
fedeli all’effimero apparire
del loro comandamento
Mi ricordano la fugacità di ogni danza che danzo
di ogni volo che si compie
e la condanna di chi resta fisso a guardarle
con le radici nella terra
(con le braccia troppo corte sulla terra)
seppur passa, senza andare passa
vittima dello stesso comandamento

Emio Capaccio

giovedì 3 aprile 2025

Tre poesie di Vladimir Holan

No, non andartene ancora...


No, non andartene ancora, non temere i sussulti,

è l’orso che si apre gli alveari in giardino.

Si placherà. Strozzerò anch’io il discorso

come la fretta dello sperma serpentino

verso la donna nell’Eden.


No, non andartene ancora, non abbassare il tuo velo.

Il metilene dei còlchici è divampato nel prato.

Sei tu sempre, vita, anche quando sostieni:

Anelando aggiungiamo. Ma l’amore

non ha somiglianza...





Cessato è il canto delle sirene


Questa notte nei sogni mi dicevo:

«Amara è la sete e così sbalordita, che beve dal fato

come un fantoccio di stracci gettato da un bambino in un orinale.

Amara è la voluttà, perché ha tutto

in una così urgente vicinanza, che persino il mistero è fuori mano.

Amara è l’arte e così nera, che potrebbe scolorirla

solo sudore di ascelle di donna, se la morte fosse donna.

Amara è la coscienza che si aggrappa alle cose

come l’ottuso rasoio con cui sbarbano i morti.

Amaro è tutto questo – e tuttavia

sarebbe bene scuotersi e vegliare!».


Ma erano gli angeli quadricèfali del carro funebre

che mi portava via al silenziario,

erano gli angeli che io sentivo

bisbigliare per sempre l’uno all’altro:

«Non destarlo, piano, non destarlo!».




L’ultima


L’ultima foglia trema sul platano, perché sa bene

che ciò che non vacilla non è saldo.

Tremo, mio Dio, perché intuisco

che presto morirò e dovrei essere saldo.

Da ogni albero cadrà anche l’ultimissima foglia,

perché esso non è privo di fiducia nella terra.

Da ogni uomo cadrà anche l’ultima finzione,

perché la tavola nell’obitorio è del tutto semplice.

La foglia non deve, Dio mio, supplicarti di nulla,

l’hai fatta crescere e non ha guastato il tuo intento.


Ma io...




Vladimír Holan (Praga 1905 – ivi 1980). Cultore, in un primo tempo, della poesia astratta, spesso indecifrabile (Il ventaglio delirante, 1926), seppe farsi appassionato testimone degli anni tragici della Boemia (Settembre 1938) e limpido cantore della nuova Cecoslovacchia (Gratitudine all’Unione Sovietica, 1945; A te, 1947). Dal 1948 si chiuse in un isolamento totale, immerso nella visionaria e dolorosa meditazione da cui nascono le altre sue opere: Mozartiana (1963); Senza titolo (1963); In progresso (1964); Una notte con Amleto (1964); Trialogo (1964); Il dolore (1965); La morte e il sogno e la parola (1965); Ma c’è la musica (1968); Un gallo a Esculapio (1970); Ovunque è silenzio (1977).



*

Testi selezionati da Una notte con Amleto e altre poesie (trad. di A. M. Ripellino, SE, 2018)


da   https://www.avampostopoesia.com/poeti/vladimir-holan


sabato 29 marzo 2025

Perchè scrivo, di Italo Calvino.

Posso dire che scrivo per comunicare perché la scrittura è il modo in cui riesco a far passare delle cose attraverso di me, delle cose che magari vengono a me dalla cultura che mi circonda, dalla vita, dall’esperienza, dalla letteratura che mi ha preceduto, a cui do quel tanto di personale che hanno tutte le esperienze che passano attraverso una persona umana e poi tornano in circolazione. È per questo che scrivo. Per farmi strumento di qualcosa che è certamente più grande di me e che è il modo in cui gli uomini guardano, commentano, giudicano, esprimono il mondo: farlo passare attraverso di me e rimetterlo in circolazione. Questo è uno dei tanti modi con cui una civiltà, una cultura, una società vive assimilando esperienze e rimettendole in circolazione (1983).

Scrivo per imparare qualcosa che non so. Non mi riferisco adesso all’arte della scrittura, ma al resto: a un qualche sapere o competenza specifica, oppure a quel sapere più generale che chiamano “esperienza della vita”. Non è il desiderio di insegnare ad altri ciò che so o credo di sapere che mi mette voglia di scrivere, ma al contrario la coscienza dolorosa della mia incompetenza. Il mio primo impulso sarebbe dunque di scrivere per fingere una competenza che non ho? Me per essere in grado di fingere, devo in qualche modo accumulare informazioni, nozioni, osservazioni, devo riuscire a immaginarmi il lento accumularsi dell’esperienza. E questo posso farlo solo nella pagina scritta, dove spero di catturare almeno qualche traccia d’un sapere o d’una saggezza che nella vita ho sfiorato appena e subito perso (1985).

Marco Guzzi sul Crocefisso di Cutro

In un pomeriggio piovoso di tanti anni fa mio padre, Marcello, mi mostrò, nel suo studio di avvocato, un'antica cartolina ingiallita, che un tale Don Ciampa aveva inviato a suo padre, Domenico.

Questa cartolina mostrava il volto del Crocifisso di Cutro, la cittadina che mio nonno aveva abbandonato nel 1901, e che io sono tornato a visitare nel 2014, primo Guzzi che dopo 113 anni tornava a Cutro.

Questo famoso Crocifisso, scolpito nel 1630 da frate Umile Pintorno da Petralia, e venerato da secoli, è particolarmente sconvolgente, anche perché mostra tre espressioni diverse, a seconda del punto da cui lo osserviamo: appare sorridente se lo guardiamo frontalmente, agonizzante se lo osserviamo dal lato sinistro, e morto, se lo contempliamo da destra.

Ogni volta che lo guardo torna in me la grande domanda: ma perché la nostra salvezza si è dovuta concretizzare in una forma così brutale?

E questa domanda trova una sua qualche risposta specialmente quando sto molto male, oppure quando osservo sgomento l'orrore delle violenze che noi umani siamo in grado di commettere ogni giorno.

Terribile deve essere la potenza del male su questa terra, se la sua sconfitta si è potuta realizzare soltanto in questo modo.

Terribile deve essere la potenza dell'odio e della morte,  se la loro legge omicida la possiamo sconfiggere solo attraverso una simile Passione.

Poi nel silenzio lo sgomento lascia il posto ad un soffuso sentimento di amore: il male, qualsiasi male, e qualsiasi morte sono già stati vinti, sono già stati attraversati e sconfitti, la strada è già aperta, l'ostacolo è già spezzato, e tutto ritorna Uno nel Cuore paziente, nel Cuore inerme e pieno di amore, dell'Uomo-Dio.

Marco Guzzi

lunedì 24 marzo 2025

Una poesia di Francesco Benozzo

 

STIAMO TUTTI, NESSUNO ESCLUSO, SCOMPARENDO

Benché abbondino ormai Apocalissi

sulle labbra di molti, in buono stato

truci, tascabili, di seconda mano,

le parole d’amore immacolate

si sono dimostrate intercambiabili

come avamposti aspri e inefficaci,

come emozioni e affetti sempre uguali.

Ho una notizia nera, definitiva:

state tutti, nessuno escluso, scomparendo

– le ragazze-occhi-torbidi, i reclusi

gli adolescenti ridanciani, i vecchi

gli esiliati smentiti dai racconti

le lepri che mi annusano la mano

le madri onnipresenti, quelle inermi

i manchevoli padri vissuti troppo a lungo

i fratelli vissuti troppo poco

gli amici – nessun amico – che sospettano

l’oblio del fuoco nella sua impazienza –.

State tutti placandovi, estinguendovi

affogando nel periplo lunare

nell’inadeguatezza dei miraggi

nelle frane di un’altra nostalgia.

Ho una notizia nera, definitiva:

stiamo tutti, nessuno escluso, scomparendo

senza ragione, senza senso, o forse

senza aver fatto veramente i conti

coi nevicati voli di falene

e coi profili immobili del nulla:

ciascuno alla sua polvere, ciascuno

ai suoi contemplativi ultimi istanti.

Questo poema – indifferente, rude –

vi ha abbandonato, vi ha tradito, ha scelto

di farsi irreprensibile ma ingrato

di assomigliare a un quarzo incondiviso

a una scheggia di stella discontinua

a una lucciola spenta nella brina.

Ho una notizia nera, definitiva:

solo un silenzio di spaventapasseri

– di braccia-legno, senza piume, stolte –

regnerà sui domini disadorni

e sugli enigmi nordici del pianto

dove i suicidi, spesso, ci ripensano

e tornano dolenti verso casa.

domenica 23 marzo 2025

Una poesia di Ester Guglielmino



Tu mi vuoi spegnere grano 

dopo grano, trasformarmi

in polvere che porta addosso 

il peso d'ogni passo. Tu vuoi

la cenere del mio fuoco vivo,

vuoi custodirmi agli angoli 

delle tue candele, riserva 

d'aria quando il buio divora. 

Ma non ti bruci le dita, questa 

mia smania imperterrita di vita.

mercoledì 12 marzo 2025

L'autenticità, per Franca Mancinelli

a cura di Maria Borio e Laura Di Corcia

 

Per il secondo ciclo di riflessioni attorno al tema dell’autenticità e la poesia, oggi risponde 

Franca Mancinelli. 

L’autenticità in letteratura è una questione da affrontare a partire dalla lingua. Quando entriamo nella dimensione della creazione, ossia quando la lingua vive nella sua potenzialità originaria, il tema, l’oggetto della scrittura, non è infatti altro che un filtro, un setaccio attraverso cui passa la vita. Non c’è un tema che abbia più valore di un altro o più diritto ad essere espresso. La distruzione di un formicaio piuttosto che il bombardamento di una città. Un passero ucciso da un cacciatore, una donna vittima di femminicidio. Una guerra in corso, una cucina in cui viene preparato uno spezzatino di carne. Spesso ci ritroviamo inconsapevolmente dentro un orizzonte ideologico che stabilisce gerarchie di spazi e di contesti, e che pretende di determinare la direzione dello sguardo che la letteratura dovrebbe avere. Ma la scrittura è ancora oggi, come narra il mito, una tessitura, non tanto per ciò che fa, quanto per ciò che lascia affiorare. Un’opera letteraria è tale quando ci permette di percepire la trama sottile in cui è intrecciato ogni elemento del reale; quando ci mostra lo stesso filo, la stessa materia che attraversa molteplici stati e forme dell’essere. L’identità in cui ci ritroviamo a vivere si allenta, si apre quando entriamo in alcune esperienze come quella dell’arte, della scrittura. Infatti, quando siamo a contatto con la natura autentica della lingua, siamo pienamente dentro questo tessuto del reale, per cui in ogni figura che tracceremo si riverbererà l’altro, e il tutto a cui appartiene. Allo stesso modo, non c’è esperienza vissuta, per quanto drammatica, per quanto eccezionale, che possa garantirci di essere autori, o di essere degni di ascolto. Possiamo esserlo, nella misura in cui dalle nostre parole traspare l’arazzo della vita, come se le stesse lettere dell’alfabeto sbiadissero, per fare emergere l’originaria trama. La pagina bianca sta di fronte a noi come uno spazio di visione, un luogo in cui la crosta del reale si infrange, e possiamo finalmente, anche se per pochi istanti, sporgerci oltre la superficie.

*

Ognuno si consegna al proprio sangue, come pagina all’inchiostro. L’autenticità nella scrittura ha a che fare con una forma di misura, con un sottile e inderogabile equilibrio. È intrinsecamente legata a un’ecologia della parola, alla consapevolezza che è il silenzio la nostra risorsa più preziosa, la fonte primaria di energia, di connessione con lo strato più profondo del reale, da cui riceviamo il nutrimento per creare. Più possiamo sostare in questo spazio più la nostra lingua è rigenerata, riportata alla vita che le appartiene, nello stesso nastro millenario che si avvolge e riavvolge.

Si scrive a partire da ciò che precede la parola, dall’esperienza del non dicibile. È da lì, da quell’oscurità, che ogni volta risaliamo, riportando i segni del nostro fallire. Tornando alla lingua infatti perdiamo la totalità in cui eravamo immersi, ma conserviamo il ricordo di ciò che è accaduto.

La poesia è fatta di parole ma ci porta al di là di esse, ogni parola poetica è una soglia. Quando un testo è invece scritto a partire dalle parole, si avverte un senso di claustrofobia. È il sintomo della superficie: non c’è stata alcuna discesa precedente. Siamo semplicemente riconsegnati a ciò che appare davanti ai nostri occhi.

Credo, come afferma Zanzotto, che la lingua sia ancora depositaria dell’autentico. Può assomigliare forse a un rifugio, a un tunnel che porta oltre confini altrimenti sbarrati, a un luogo nascosto dove si organizza la resistenza. E dove si pratica quella che il poeta di Soligo chiama «l’eterna riabilitazione di un trauma di cui s’ignora la natura»; uno spazio in cui si rielabora la catastrofe che, prima di ogni cosa, è questo nostro venire al mondo.

*

«Nel nostro mondo, camminiamo sopra l’inferno guardando i fiori» (Kobashi Issa). Quei fiori appartengono alla realtà o a una creazione dell’immaginazione che ci aiuta a sostenere l’orrore? Non importa distinguerlo. Tracciare confini tra la nostra interiorità e il mondo è come dividere le nuvole dal cielo, le onde dal mare. I fiori che nomina Kobashi Issa sono uno di quei dettagli che l’occhio disattento, chiuso nei percorsi di ogni giorno, non scorge. Chi vive determinato dal lavoro e dalle azioni da compiere, non conosce quei fiori. Al loro posto ci sono gli obbiettivi, i compiti che aiutano a non lasciarsi ingoiare dal vuoto, nascondendolo per un po’. Quei fiori invece non coprono nulla, crescono proprio accanto al baratro. Brillano come una candela nel buio. Sono lì che aspettano ognuno di noi, nel disarmo. Nella possibilità che abbiamo di tornare all’infanzia, per riconoscere la bellezza e continuare a meravigliarci. Perché quei fiori, per quanto ai margini del nostro cammino, sono capaci di orientarlo, di darci la forza per fare i passi che stiamo facendo, sopra l’inferno.

Sia l’inferno che i fiori sono nello sguardo di Kobashi, nella sua consapevolezza. Se non nominasse l’inferno quei fiori potrebbero essere finti, retorici, decorativi. Così si stagliano invece come un segnale, una direzione di salvezza, ciò che ci permette di non precipitare. Se invece non nominasse i fiori, la scena si farebbe del tutto cupa, i passi sarebbero dovuti a qualità umane come la resistenza e il coraggio. Non è così, la direzione di quei passi è determinata dai fiori, dalla loro presenza umile e insieme miracolosa. Questi fiori non sono né più né meno reali dell’inferno. La parola poetica fa esistere entrambi. C’è però una dimensione in cui ciò che è apparentemente più labile, più prossimo all’immaginazione e al sogno, contiene in sé una realtà che va oltre la superficie, oltre la datità, senza negarla, aprendola a una condizione dove ciò che appare negativo viene ricaricato positivamente, ricondotto nella vastità generante del cosmo. Non si tratta di una menzogna o di una finzione, ma di una trasformazione che rende più “vera” la realtà, avvicinandola all’origine, ricongiungendola alla trama infinita del cosmo. Ciò che in fondo ci aspettiamo ancora dalla poesia (e che, probabilmente, costituisce la sua essenza) è questa radicale inversione di rotta. Qualsiasi contenuto l’esistenza ci presenti, per quanto tragico e alienante, riconosciamo l’autenticità della parola poetica proprio per la sua capacità di guidarci attraverso di esso, senza alcuna invenzione o nascondimento, nella forza di un movimento di metamorfosi.

*

Penso ai più grandi autori della nostra letteratura e vedo, più che i loro volti, una cornice vuota, l’intelaiatura di una finestra. La forza che li conduce a noi, superando distanze di spazio e di tempo, di lingue e di culture, è proporzionale alla misura in cui attraverso se stessi e la loro opera hanno creato uno spazio perché la vita potesse parlare. I loro libri sono infatti prima di tutto anonimi, creazione di tutte le esistenze confluite in quel punto, e solo in un secondo tempo prendono, per il mondo, il nome di autori come Rainer Maria Rilke, Fernando Pessoa, Thomas Eliot, Giacomo Leopardi… Come dice Paul Eluard in due versi che porto con me dall’adolescenza: «Doveva pur esserci un viso / Con tutti i nomi del mondo». Sono tratti da una sua poesia tradotta da Fortini. In questi versi sento ancora l’espandersi di un amore che trabocca fino ad incarnarsi in una persona, come un’acqua che trova una riva: per esistere, per potere essere riconosciuta. Chiamiamo infatti il mare Adriatico, Ionio, riferendoci alla stessa acqua del pianeta. Qualcosa di simile accade in quel viso che a un tratto sembra illuminare la nostra esistenza. Risponde a un nome, ma tutti i nomi del mondo continuano a risuonare entro i suoi contorni, tutti i nomi del mondo precedono infatti l’esistenza di quello spazio amato, dai lineamenti umani. È autentico l’amore che ha questa tensione, questo movimento che dall’infinito della vita conduce a un’individualità, senza chiudersi e morire in essa, ma continuando a vibrare della vastità sconfinata che gli appartiene. Questo stesso movimento segue la poesia. Non è infatti concepibile la poesia al di fuori di un orizzonte collettivo: la pluralità è connaturata alla materia stessa della lingua che si mantiene in vita attraverso la trasmissione di significato, oltre i confini dell’io verso gli altri, nel tempo presente, come in quello passato e futuro.

*

La poesia è una forma di rinascita. L’inizio di un’altra vita nelle parole. Attraverso la lingua infatti è data ad ognuno la possibilità di frangere la scorza del mondo e avvicinarsi alla propria essenza, a ciò che germina in noi. Questo principio di creazione si manifesta nei vuoti, negli interstizi del nostro io, con la stessa tenacia ottusa delle piante che crescono tra le crepe del cemento. Come autori ci adoperiamo a costruire – una trama, una forma, una struttura – invece il processo creativo ci chiede di sostare nelle zone in cui le nostre tecniche e strategie affinate negli anni si rivelano inutili. Siamo chiamati ad abbandonare il tempo della volontà e dei progetti e a riconciliarci con il movimento ciclico che opera in noi come in ogni altro elemento dell’universo. Questo moto circolare leviga la nostra mente, la rende sempre più umile, sempre più vicina alla materia di cui è composta. Molto ci resta da imparare dai sassi. Quelli di mare e di acqua dolce, per esempio, perdono la loro lucentezza quando si asciugano al sole. Così noi quando usciamo dal cerchio. La nostra bellezza, la nostra autenticità di esseri umani, sta nell’essere pienamente immersi nella dimensione che ci appartiene.

Nella composizione di un testo, il lavoro consiste nell’abbandonarci al flusso delle immagini, nel nostro farci il più possibile vuoti e quindi capienti verso la più ampia portata di visione. Dovremmo renderci capaci di contenere, di accogliere e allo stesso tempo di comprendere, come suggerisce il verbo latino cápere. Più che di una comprensione razionale si tratta infatti di una disposizione di apertura. Dopo che il testo ha trovato una prima forma sulla pagina, il lavoro diventa quello di togliere tutto ciò che grava sulla lingua, che ostacola il fluire delle immagini: espressioni poetiche, termini astratti, residui della tradizione, così come ripuliremmo un corso d’acqua dai prodotti della nostra esistenza. Tutta l’attenzione si concentra e calibra attorno all’equilibrio tra abbandono e cura, tra obbedienza e controllo. Ci sono elementi indispensabili alla vitalità del testo che restano celati, immersi nella materia della lingua. Se li sottraggo nel mio labor limae l’impressione è quella di immagini che restano sospese, sradicate dall’esperienza che le ha generate. Il testo ne risente, registra del nostro labor lo sforzo, la fatica. Accade qualcosa di simile a un respiro interrotto troppo presto. C’è invece una segreta adesione alla vita della lingua che opera dentro la sua natura, nella sua autenticità: conosce quel portare parole che toglie energia al testo, e quel togliere che ne aumenta la forza.

Un pensiero di Vito Mancuso sulla "passione"

LA PASSIONE

Più passa il tempo e più mi rendo conto di quanto sia importante la dimensione passiva. Da giovane, per me in principio c’era sempre l’azione. Ma oggi so che c’è qualcosa che precede la mia azione. Ognuno di noi agisce bene nella misura in cui prima accoglie, ascolta, impara, va a scuola, si fa attento. Le azioni più importanti sono quelle che nascono da una passione che le precede. Passione intesa come pathos, ossia qualcosa che viene patito, sia in senso negativo come sofferenza incontrata, accolta, affrontata, sia nel senso positivo di una passione che non arriva da te ma ti prende e ti mette in azione. La passione non è un hobby, ma qualcosa di molto più radicale.

Una poesia di Dulce Marìa Loynaz

 XLIV

Dulce María Loynaz (1902-1997)

Tu sei morto, perché agiti le braccia davanti a me e rimuovi la tua voce dalle ceneri in cui s’è spenta tanto tempo fa?
Tu sei morto, ti dico che sei morto, e non puoi tornare a mettere la mano sulla mia strada.
Non puoi fare nulla contro di me, che sono viva; nulla contro il mio cuore caldo, giovane, ancora puro.
Tu sei morto. Sei un putridume che si butta via, che si ricopre di terra, che si lava con l’acqua dalle mani se lo si tocca; non toccare me, che sono viva, che ho il mio vino da bere e il mio corso da seguire!
Non hai niente a che vedere con me; non mi agitare le braccia davanti e non mostrarmi i denti bianchi, ancora allineati, perché so che così restano i morti per molto tempo!
Tu sei un morto. Non lo capisci? E io porto l’amore tra le braccia… Lasciami passare!

Traduzione di Emilio Capaccio

*
XLIV
Tú estas muerto. ¿Por qué agitas los brazos ante mí y remueves tu voz por dentro de la ceniza en que se apagó hace tanto tiempo?
Tú estás muerto, te digo que estás muerto, y no puedes volver a poner tu mano sobre mi via.
Nada puedes contra mí, que soy viva; nada contra mi corazón tibio, joven, puro todavía.
Tú estás muerto. Eres una podredumbre que se echa a un lado, que se cubre con tierra, que se limpia con agua de las manos si llega a tocarse. ¡No me toques a mí, que estoy viva, que tengo mi vino que beber y mi rumbo que seguir!…
Nada tienes que ver conmigo. ¡No me agites los brazos por delante, ni me muestres los dientes blancos, alineados todavía, que yo sé que así se les quedan por mucho tiempo a los muertos!…
Tú eres un muerto. ¿No lo comprendes? Y yo llevo el amor en los brazos… ¡Déjame pasar!

Una poesia di Francesca Del Moro



Quando parlano di figli
io sono preparata
faccio dell'aria
una barriera protettiva
trascoloro
dietro i miei occhi
forti come il ferro
colo
come pioggia
lungo il viso tranquillo
e senza turbarne
la postura attenta
scendo
in fondo al mio corpo
come sabbia
nella clessidra.

Francesca Del Moro