mercoledì 12 marzo 2025

L'autenticità, per Franca Mancinelli

a cura di Maria Borio e Laura Di Corcia

 

Per il secondo ciclo di riflessioni attorno al tema dell’autenticità e la poesia, oggi risponde 

Franca Mancinelli. 

L’autenticità in letteratura è una questione da affrontare a partire dalla lingua. Quando entriamo nella dimensione della creazione, ossia quando la lingua vive nella sua potenzialità originaria, il tema, l’oggetto della scrittura, non è infatti altro che un filtro, un setaccio attraverso cui passa la vita. Non c’è un tema che abbia più valore di un altro o più diritto ad essere espresso. La distruzione di un formicaio piuttosto che il bombardamento di una città. Un passero ucciso da un cacciatore, una donna vittima di femminicidio. Una guerra in corso, una cucina in cui viene preparato uno spezzatino di carne. Spesso ci ritroviamo inconsapevolmente dentro un orizzonte ideologico che stabilisce gerarchie di spazi e di contesti, e che pretende di determinare la direzione dello sguardo che la letteratura dovrebbe avere. Ma la scrittura è ancora oggi, come narra il mito, una tessitura, non tanto per ciò che fa, quanto per ciò che lascia affiorare. Un’opera letteraria è tale quando ci permette di percepire la trama sottile in cui è intrecciato ogni elemento del reale; quando ci mostra lo stesso filo, la stessa materia che attraversa molteplici stati e forme dell’essere. L’identità in cui ci ritroviamo a vivere si allenta, si apre quando entriamo in alcune esperienze come quella dell’arte, della scrittura. Infatti, quando siamo a contatto con la natura autentica della lingua, siamo pienamente dentro questo tessuto del reale, per cui in ogni figura che tracceremo si riverbererà l’altro, e il tutto a cui appartiene. Allo stesso modo, non c’è esperienza vissuta, per quanto drammatica, per quanto eccezionale, che possa garantirci di essere autori, o di essere degni di ascolto. Possiamo esserlo, nella misura in cui dalle nostre parole traspare l’arazzo della vita, come se le stesse lettere dell’alfabeto sbiadissero, per fare emergere l’originaria trama. La pagina bianca sta di fronte a noi come uno spazio di visione, un luogo in cui la crosta del reale si infrange, e possiamo finalmente, anche se per pochi istanti, sporgerci oltre la superficie.

*

Ognuno si consegna al proprio sangue, come pagina all’inchiostro. L’autenticità nella scrittura ha a che fare con una forma di misura, con un sottile e inderogabile equilibrio. È intrinsecamente legata a un’ecologia della parola, alla consapevolezza che è il silenzio la nostra risorsa più preziosa, la fonte primaria di energia, di connessione con lo strato più profondo del reale, da cui riceviamo il nutrimento per creare. Più possiamo sostare in questo spazio più la nostra lingua è rigenerata, riportata alla vita che le appartiene, nello stesso nastro millenario che si avvolge e riavvolge.

Si scrive a partire da ciò che precede la parola, dall’esperienza del non dicibile. È da lì, da quell’oscurità, che ogni volta risaliamo, riportando i segni del nostro fallire. Tornando alla lingua infatti perdiamo la totalità in cui eravamo immersi, ma conserviamo il ricordo di ciò che è accaduto.

La poesia è fatta di parole ma ci porta al di là di esse, ogni parola poetica è una soglia. Quando un testo è invece scritto a partire dalle parole, si avverte un senso di claustrofobia. È il sintomo della superficie: non c’è stata alcuna discesa precedente. Siamo semplicemente riconsegnati a ciò che appare davanti ai nostri occhi.

Credo, come afferma Zanzotto, che la lingua sia ancora depositaria dell’autentico. Può assomigliare forse a un rifugio, a un tunnel che porta oltre confini altrimenti sbarrati, a un luogo nascosto dove si organizza la resistenza. E dove si pratica quella che il poeta di Soligo chiama «l’eterna riabilitazione di un trauma di cui s’ignora la natura»; uno spazio in cui si rielabora la catastrofe che, prima di ogni cosa, è questo nostro venire al mondo.

*

«Nel nostro mondo, camminiamo sopra l’inferno guardando i fiori» (Kobashi Issa). Quei fiori appartengono alla realtà o a una creazione dell’immaginazione che ci aiuta a sostenere l’orrore? Non importa distinguerlo. Tracciare confini tra la nostra interiorità e il mondo è come dividere le nuvole dal cielo, le onde dal mare. I fiori che nomina Kobashi Issa sono uno di quei dettagli che l’occhio disattento, chiuso nei percorsi di ogni giorno, non scorge. Chi vive determinato dal lavoro e dalle azioni da compiere, non conosce quei fiori. Al loro posto ci sono gli obbiettivi, i compiti che aiutano a non lasciarsi ingoiare dal vuoto, nascondendolo per un po’. Quei fiori invece non coprono nulla, crescono proprio accanto al baratro. Brillano come una candela nel buio. Sono lì che aspettano ognuno di noi, nel disarmo. Nella possibilità che abbiamo di tornare all’infanzia, per riconoscere la bellezza e continuare a meravigliarci. Perché quei fiori, per quanto ai margini del nostro cammino, sono capaci di orientarlo, di darci la forza per fare i passi che stiamo facendo, sopra l’inferno.

Sia l’inferno che i fiori sono nello sguardo di Kobashi, nella sua consapevolezza. Se non nominasse l’inferno quei fiori potrebbero essere finti, retorici, decorativi. Così si stagliano invece come un segnale, una direzione di salvezza, ciò che ci permette di non precipitare. Se invece non nominasse i fiori, la scena si farebbe del tutto cupa, i passi sarebbero dovuti a qualità umane come la resistenza e il coraggio. Non è così, la direzione di quei passi è determinata dai fiori, dalla loro presenza umile e insieme miracolosa. Questi fiori non sono né più né meno reali dell’inferno. La parola poetica fa esistere entrambi. C’è però una dimensione in cui ciò che è apparentemente più labile, più prossimo all’immaginazione e al sogno, contiene in sé una realtà che va oltre la superficie, oltre la datità, senza negarla, aprendola a una condizione dove ciò che appare negativo viene ricaricato positivamente, ricondotto nella vastità generante del cosmo. Non si tratta di una menzogna o di una finzione, ma di una trasformazione che rende più “vera” la realtà, avvicinandola all’origine, ricongiungendola alla trama infinita del cosmo. Ciò che in fondo ci aspettiamo ancora dalla poesia (e che, probabilmente, costituisce la sua essenza) è questa radicale inversione di rotta. Qualsiasi contenuto l’esistenza ci presenti, per quanto tragico e alienante, riconosciamo l’autenticità della parola poetica proprio per la sua capacità di guidarci attraverso di esso, senza alcuna invenzione o nascondimento, nella forza di un movimento di metamorfosi.

*

Penso ai più grandi autori della nostra letteratura e vedo, più che i loro volti, una cornice vuota, l’intelaiatura di una finestra. La forza che li conduce a noi, superando distanze di spazio e di tempo, di lingue e di culture, è proporzionale alla misura in cui attraverso se stessi e la loro opera hanno creato uno spazio perché la vita potesse parlare. I loro libri sono infatti prima di tutto anonimi, creazione di tutte le esistenze confluite in quel punto, e solo in un secondo tempo prendono, per il mondo, il nome di autori come Rainer Maria Rilke, Fernando Pessoa, Thomas Eliot, Giacomo Leopardi… Come dice Paul Eluard in due versi che porto con me dall’adolescenza: «Doveva pur esserci un viso / Con tutti i nomi del mondo». Sono tratti da una sua poesia tradotta da Fortini. In questi versi sento ancora l’espandersi di un amore che trabocca fino ad incarnarsi in una persona, come un’acqua che trova una riva: per esistere, per potere essere riconosciuta. Chiamiamo infatti il mare Adriatico, Ionio, riferendoci alla stessa acqua del pianeta. Qualcosa di simile accade in quel viso che a un tratto sembra illuminare la nostra esistenza. Risponde a un nome, ma tutti i nomi del mondo continuano a risuonare entro i suoi contorni, tutti i nomi del mondo precedono infatti l’esistenza di quello spazio amato, dai lineamenti umani. È autentico l’amore che ha questa tensione, questo movimento che dall’infinito della vita conduce a un’individualità, senza chiudersi e morire in essa, ma continuando a vibrare della vastità sconfinata che gli appartiene. Questo stesso movimento segue la poesia. Non è infatti concepibile la poesia al di fuori di un orizzonte collettivo: la pluralità è connaturata alla materia stessa della lingua che si mantiene in vita attraverso la trasmissione di significato, oltre i confini dell’io verso gli altri, nel tempo presente, come in quello passato e futuro.

*

La poesia è una forma di rinascita. L’inizio di un’altra vita nelle parole. Attraverso la lingua infatti è data ad ognuno la possibilità di frangere la scorza del mondo e avvicinarsi alla propria essenza, a ciò che germina in noi. Questo principio di creazione si manifesta nei vuoti, negli interstizi del nostro io, con la stessa tenacia ottusa delle piante che crescono tra le crepe del cemento. Come autori ci adoperiamo a costruire – una trama, una forma, una struttura – invece il processo creativo ci chiede di sostare nelle zone in cui le nostre tecniche e strategie affinate negli anni si rivelano inutili. Siamo chiamati ad abbandonare il tempo della volontà e dei progetti e a riconciliarci con il movimento ciclico che opera in noi come in ogni altro elemento dell’universo. Questo moto circolare leviga la nostra mente, la rende sempre più umile, sempre più vicina alla materia di cui è composta. Molto ci resta da imparare dai sassi. Quelli di mare e di acqua dolce, per esempio, perdono la loro lucentezza quando si asciugano al sole. Così noi quando usciamo dal cerchio. La nostra bellezza, la nostra autenticità di esseri umani, sta nell’essere pienamente immersi nella dimensione che ci appartiene.

Nella composizione di un testo, il lavoro consiste nell’abbandonarci al flusso delle immagini, nel nostro farci il più possibile vuoti e quindi capienti verso la più ampia portata di visione. Dovremmo renderci capaci di contenere, di accogliere e allo stesso tempo di comprendere, come suggerisce il verbo latino cápere. Più che di una comprensione razionale si tratta infatti di una disposizione di apertura. Dopo che il testo ha trovato una prima forma sulla pagina, il lavoro diventa quello di togliere tutto ciò che grava sulla lingua, che ostacola il fluire delle immagini: espressioni poetiche, termini astratti, residui della tradizione, così come ripuliremmo un corso d’acqua dai prodotti della nostra esistenza. Tutta l’attenzione si concentra e calibra attorno all’equilibrio tra abbandono e cura, tra obbedienza e controllo. Ci sono elementi indispensabili alla vitalità del testo che restano celati, immersi nella materia della lingua. Se li sottraggo nel mio labor limae l’impressione è quella di immagini che restano sospese, sradicate dall’esperienza che le ha generate. Il testo ne risente, registra del nostro labor lo sforzo, la fatica. Accade qualcosa di simile a un respiro interrotto troppo presto. C’è invece una segreta adesione alla vita della lingua che opera dentro la sua natura, nella sua autenticità: conosce quel portare parole che toglie energia al testo, e quel togliere che ne aumenta la forza.

Un pensiero di Vito Mancuso

LA PASSIONE

Più passa il tempo e più mi rendo conto di quanto sia importante la dimensione passiva. Da giovane, per me in principio c’era sempre l’azione. Ma oggi so che c’è qualcosa che precede la mia azione. Ognuno di noi agisce bene nella misura in cui prima accoglie, ascolta, impara, va a scuola, si fa attento. Le azioni più importanti sono quelle che nascono da una passione che le precede. Passione intesa come pathos, ossia qualcosa che viene patito, sia in senso negativo come sofferenza incontrata, accolta, affrontata, sia nel senso positivo di una passione che non arriva da te ma ti prende e ti mette in azione. La passione non è un hobby, ma qualcosa di molto più radicale.

Una poesia di Dulce Marìa Loynaz

 XLIV

Dulce María Loynaz (1902-1997)

Tu sei morto, perché agiti le braccia davanti a me e rimuovi la tua voce dalle ceneri in cui s’è spenta tanto tempo fa?
Tu sei morto, ti dico che sei morto, e non puoi tornare a mettere la mano sulla mia strada.
Non puoi fare nulla contro di me, che sono viva; nulla contro il mio cuore caldo, giovane, ancora puro.
Tu sei morto. Sei un putridume che si butta via, che si ricopre di terra, che si lava con l’acqua dalle mani se lo si tocca; non toccare me, che sono viva, che ho il mio vino da bere e il mio corso da seguire!
Non hai niente a che vedere con me; non mi agitare le braccia davanti e non mostrarmi i denti bianchi, ancora allineati, perché so che così restano i morti per molto tempo!
Tu sei un morto. Non lo capisci? E io porto l’amore tra le braccia… Lasciami passare!

Traduzione di Emilio Capaccio

*
XLIV
Tú estas muerto. ¿Por qué agitas los brazos ante mí y remueves tu voz por dentro de la ceniza en que se apagó hace tanto tiempo?
Tú estás muerto, te digo que estás muerto, y no puedes volver a poner tu mano sobre mi via.
Nada puedes contra mí, que soy viva; nada contra mi corazón tibio, joven, puro todavía.
Tú estás muerto. Eres una podredumbre que se echa a un lado, que se cubre con tierra, que se limpia con agua de las manos si llega a tocarse. ¡No me toques a mí, que estoy viva, que tengo mi vino que beber y mi rumbo que seguir!…
Nada tienes que ver conmigo. ¡No me agites los brazos por delante, ni me muestres los dientes blancos, alineados todavía, que yo sé que así se les quedan por mucho tiempo a los muertos!…
Tú eres un muerto. ¿No lo comprendes? Y yo llevo el amor en los brazos… ¡Déjame pasar!

Una poesia di Francesca Del Moro



Quando parlano di figli
io sono preparata
faccio dell'aria
una barriera protettiva
trascoloro
dietro i miei occhi
forti come il ferro
colo
come pioggia
lungo il viso tranquillo
e senza turbarne
la postura attenta
scendo
in fondo al mio corpo
come sabbia
nella clessidra.

Francesca Del Moro

lunedì 24 febbraio 2025

"Dei poeti"

 
Dei poeti 

non si sa che farsene, lo si dica.
Se non cave 
di articoli presto abbandonate 
e qualche 
sparuta intervista.
A onor di cronaca non mancano 
struggimenti in Do maggiore 
in quella 
speciale ricorrenza 
che è il suicidio d'artista. 
Ma nel quotidiano via-vai 
della rete - Bar del tempo di grandi 
solitarie bevute - 
si è soliti accodarsi 
alle molte dicerie, o talvolta 
condividere in bacheca singole 
fortunate poesie. 
Ma il loro canto, oh, 
lo si percepisce appena 
- Figuriamoci quando arretra 
e sono più soli ancora
sfiancati dalla lotta 
per aprirsi e condonare 
- nonostante le paure

e le mille fitte oscure.


Miriam Bruni


sabato 22 febbraio 2025

Galimberti, sul "tradimento"...

 Se il tradimento non è solo un esercizio di sessualità a bassa definizione, io penso che abbia una sua dignità e soprattutto che non debba essere giudicato da figli adulti che, nel condannarlo, pensano di più alla loro quiete perduta che al percorso anche drammatico in cui chiunque di noi, a un certo punto della sua vita, può venirsi a trovare. Tradire un amore, tradire un amico, tradire un'idea, tradire un partito, tradire persino la patria significa infatti svincolarsi da un'appartenenza e creare uno spazio di identità non protetta da alcun rapporto fiduciario, e quindi in un certo senso più autentica e vera. Nasciamo infatti nella fiducia che qualcuno ci nutra e ci ami, ma possiamo crescere e diventare noi stessi solo se usciamo da questa fiducia, se non ne restiamo prigionieri, se a coloro che per primi ci hanno amato e a tutti quelli che dopo di loro sono venuti, un giorno sappiamo dire: "Non sono come tu mi vuoi". C'è infatti in ogni amore, da quello dei genitori, dei mariti, delle mogli, degli amici, degli amanti a quello delle idee e delle cause che abbiamo sposato, una forma di possesso che arresta la nostra crescita e costringe la nostra identità a costituirsi solo all'interno di quel recinto che è la fedeltà che non dobbiamo tradire. Ma in ogni fedeltà che non conosce il tradimento e neppure ne ipotizza la possibilità c'è troppa infanzia, troppa ingenuità, troppa paura di vivere con le sole nostre forze, troppa incapacità di amare se appena si annuncia un profilo d'ombra. Eppure senza questo profilo d'ombra, quella che puerilmente chiamano "fedeltà" è l'incapacità di abbandonare lidi protetti, di uscire a briglia sciolta e a proprio rischio verso le regioni sconosciute della vita che si offrono solo a quanti sanno dire per davvero "addio". E in ogni addio c'è lo stigma del tradimento e insieme dell'emancipazione. C'è il lato oscuro della fedeltà che però è anche ciò che le conferisce il suo significato e che la rende possibile. Fedeltà e tradimento devono infatti l'una all'altro la densità del loro essere che emancipa non solo il traditore ma anche il tradito, risvegliando l'un l'altro dal loro sonno e dalla loro pigrizia emancipativa impropriamente scambiata per "amore". Gioco di prestigio di parole per confondere le carte e barare al gioco della vita. Il traditore di solito queste cose le sa, meno il tradito che, quando non si rifugia nella vendetta, nel cinismo, nella negazione o nella scelta paranoide, finisce per consegnarsi a quel tradimento di sé che è la svalutazione di se stesso per non essere più amato dall'altro, senza così accorgersi che allora, nel tempo della fedeltà, la sua identità era solo un dono dell'altro. Tradendolo l'altro lo consegna a se stesso, e niente impedisce di dire a tutti coloro che si sentono traditi che forse un giorno hanno scelto chi li avrebbe traditi per poter incontrare se stessi, come un giorno Gesù scelse Giuda per incontrare il suo destino. Sembra infatti che la legge della vita sia scritta più nel segno del tradimento che in quello della fedeltà, forse perché la vita preferisce di più chi ha incontrato se stesso e sa chi davvero è, rispetto a chi ha evitato di farlo per stare rannicchiato in un'area protetta dove il camuffamento dei nomi fa chiamare fedeltà e amore quello che in realtà è insicurezza o addirittura rifiuto di sapere chi davvero si è, per il terrore di incontrare se stessi, un giorno almeno, prima di morire, con il rischio di non essere mai davvero nati.

Umberto Galimberti

giovedì 20 febbraio 2025

Poesie di Lorenzo Pataro



La testa sul cuscino, un sasso nello stagno a sprofondare, nella stanza si propagano i pensieri come cerchi e tu non senti dal tuo regno bianco ovatta la ferita che mi buca la corteccia.



Penso ai morti del paese
a cui non pensa più nessuno.
Gli ingrigiti fiori finti, i fiori secchi,
il gelo che fa tana nelle tombe scoperchiate.
Quanto resta. Cosa resta in una foto
di tutto il mappamondo di un umano.
Una scritta, una data, qualche oggetto.
Cosa resta. Penso a tutti i trapassati
che non lasciano una scia.
Benedico i loro nomi,
percepisco il loro sonno
come un ago, la mia notte
nella cruna della loro.




Allora tu ascolta la preghiera delle foglie ferite dall’inverno, insegnami a chiamare per nome tutti i falchi come fosse un rito antico per il bene, spalanca la tua voce nello spazio tra le fronde, aspetta la stagione che riporta tutti i voli alla quercia originale, insegnami a capire questo trillo che fa eco alla parola e poi la scava qui sul petto. Allora io ritrovo le briciole perdute fra le orme, la casa nascosta dal canneto che raduna gli amori delle allodole, le pietre sul capanno diroccato e la grazia dei germogli in mezzo ai rovi.
I rovi tra la neve troveranno un’altra luce un bastone di pastore a scavare gli anemoni e le bacche marce nella terra a furia di urlare il mio nome si scheggia la tua voce o si affila come la punta di ghiaccio che pende sottile dalla casa diroccata – allora tu dammi un altro luogo in cui inselvatichirmi, una pelle di ghiro mentre dorme nel rifugio fra le travi del pagliaio chiamami col verso dei falchi o delle volpi donami le orme del lupo, gli occhi dei piccoli che cercano la madre e la sua bocca feroce quando afferra il nuovo nato dalle zampe e il sangue che sgorga si fa pietra nel gelo, ossidiana – rovescio del bianco nel bianco.



Ancora ritorna lo sparviero il nibbio a piantare l’urlo nella schiena a percorrere il dolore come un dito che tocca la ferita e la ripara la stagione degli amori ritorna e spalanca i richiami dei tordi nella nebbia se getti il germoglio sul cemento lo ruba la gazza e lo conserva nel nido poi scopre il tuo segreto e smette di brillare ogni preghiera ancora ritorna lo sparviero la poiana caduta a capofitto.




La tua bocca mi bacia ed è nido
in cui covo la ferita, mi aggrappo alla tua voce
che è sottile come un ago, mi arrampico
al tuo petto, percorro tutto il bosco in cui
cresce il tuo respiro, il legno che brucia
e mi disseta, mi dà aria che è buona
per il cuore, gli dà forma, lo contengo
sul palmo della mano, gli faccio
la guardia nottetempo, poi mi perdo
nell’oceano degli occhi, profondi misteriosi
e antichi come il fuoco, la tua bocca
mi bacia ed è il nido da cui volo verso il mare.


Lorenzo Pataro

mercoledì 19 febbraio 2025

I testi che abbinai a mie fotografie per la realizzazione di un calendario artistico

 

La Poesia è anche pittura

dell'invisibile, 
melodia

dell'inudibile, 
danza

dell'indecifrabile.



Miriam Bruni





Sono più che convinta che, in poesia, si possa dire di tutto. A patto di preservare la costitutiva differenza di linguaggio che la caratterizza, che è un linguaggio intensificato, condensato, ritmico, immaginifico.

Giovanna Rosadini Salom



Tanti anni fa, scrivevo che la poesia è una mano tesa nel buio, in attesa che uno sconosciuto la stringa. Oggi non so se ho ancora quella fiducia. La poesia mi appare sempre il canto dell’universo, il punto più alto in cui arriva una civiltà, e nello stesso tempo il più misconosciuto a tradito.

Giuseppe Conte




La poesia sa la ferita. Non la dissimula né la esibisce. Non la nega né la cancella. La dice. E mentre la dice la solleva – trattenendola, immobile, nella propria luce: la muta di stato, la trasfigura nel linguaggio della bellezza. Perciò la ferita, per un attimo, sembra come essersi rimarginata, quasi pare scomparsa. Ma è una illusione. Anche sulla pagina scritta, e fin dentro ogni verso e ogni sillaba, il sangue continua a spargersi e a scorrere a rivoli – lo strazio, ancora, resta non medicato.

Gian Giacomo Amoretti





Il compito del poeta è quasi contrario a chi cerca esclusivamente se stesso. Il poeta va cercando Dio e solo lo incontra nel profondo di tutti gli uomini. E solo è poeta quando conosce ciò che è nell’animo di tutti gli uomini possibili; e lo conosce solo quando li ama immensamente e appassionatamente.

Non c’è cosa che non darei per la Bellezza, che a sua volta è una forma di Dio; la più vicina alla Sua Natura.

Eunice Odio





Le parole della poesia sono sempre remote anche quando ci parlano di qualcosa che è qui, ora, nel tempo del nostro presente: sono remote perché richiedono una forma appartata, una disciplina della distanza, un tempo sospeso – dell’immaginazione e del pensiero – che sia in grado di scolpire verità decisive.

Giancarlo Pontiggia





Il poeta è ponte tra l’Assoluto e il tempo:
non può tradire Iddio parlando,
non può tradire l’uomo tacendo;
il risultato è un’espressione tutta particolare
che non è più discorso umano
e non è ancora Verbo assoluto e silenzioso.

Adriana Zarri




Credo e professo che la poesia sia indefinibile e che essa si manifesti nei momenti della nostra parola quando ciò che ci è più caro, ciò che di più ci ha inquietato e agitato nei nostri sentimenti e nei nostri pensieri, ciò che appartiene più profondamente alla ragione stessa della nostra vita, ci appaia nella sua verità più umana; ma in una vibrazione che sembri superare la forza dell'uomo e che non saprebbe mai essere conquista né di tradizioni né dello studio sebbene delle une e dell'altro essa incessantemente si nutra.

Ungaretti



Io credo sia proprio in questo parlare un linguaggio d’anima, cioè la sua capacità intrinseca di far sì che subito avvenga una comunicazione ad alta profondità, fra persone che non sanno nulla una dell’altra, addirittura fra appartenenti a secoli differenti. E dunque c’è anche una forza di preveggenza nella poesia, in quella sua capacità di comunicare, di parlare anche dopo secoli e centrare un cuore. La poesia è una magnifica sonda per inabissarsi nelle nostre poco frequentate profondità.

Mariangela Gualtieri


sabato 15 febbraio 2025

Una poesia di Anna Maria Carpi: "Io non volevo amare"


Io non volevo amare,
diventare
una piccola istanza ebbra, tenere stoffa
che un uomo tiene in una sola mano
e al primo abbraccio le sgualcisce il cuore.
No, non abbracci
mi figuravo.
Siediti sull’orlo del mio letto,
affetto venuto da lontano,
guardami senza mai stancarti,
come se fuori non fosse
più che neve neve e silenzio
e non si potesse più uscire.

Anna Maria Carpi

giovedì 13 febbraio 2025

Una poesia di Elena Milani: "Le donne per capirle"


                                            Le Donne per capirle
le devi guardare da fuori
ed ancora nulla ci vedi
di così speciale
se non ti siedi nei loro occhi.
La bellezza dei gesti reciproci
passano inosservati,
tanto sono naturali,
fra loro si aggiustano
la spallina scesa del costume,
si intrecciano i capelli,
si affidano sogni segreti,
pianificano piccole fughe e ritorni.
Le Donne fra loro
vivono un perenne spogliatoio
dopo la partita,
si mostrano i muscoli slentati,
l'usura d'esser madre,
sciolgono drappi,
cuciono strappi,
l'ago passa senza profanare,
cantano un pianto a sera
prima di rincasare.

Elena Milani

Una poesia di Giuseppe Salvatore


 Mi sono informato: ti amo.

Hai l'incostanza apparente

del mare 

Spiaggia divento, arenile

Arrivi e m'accarezzi 

Tutto allora diventa più chiaro:

Se ti allontani 

mi manco.


Una poesia di Valentina Ciurleo

                                              

                                                  Le cose sembrano aggiudicarsi un posto. 

                                                              Eppure non cercavo questo

forse un lago 
forse una foresta da perdersi.
Addosso al tuo sguardo.
Come mi hai visto? 
Senza difesa l'emozione.
In balia del vento.

Poesie di Alida Airaghi


Intercettare dio,
il dio della pazienza e del conforto,
il dio che aspetta, e sa, e non ha fretta;
fermo nella potenza,
a sé risorto; visibile
in una chiara, arresa
trasparenza. Così arpionarlo,
con dita scorticate
tremanti, innamorate:
pretesa indifferibile
dopo una vita avara.



 
Noi non sappiamo quale sortiremo
domani, oscuro o lieto;
forse il nostro cammino
a non tocche radure ci addurrà
dove mormori  eterna l'acqua di giovinezza;
o sarà forse un discendere
fino al vallo estremo,
nel buio, perso il ricordo del mattino.
Ancora terre straniere
forse, ci accoglieranno: smarriremo 
la memoria del sole, dalla mente
ci cadrà il tintinnare delle rime.
Oh la favola onde s'esprime
la nostra vita, repente
si cangerà nella cupa storia che non si racconta!
Pur di una cosa ci affidi,
padre, e questa è: che un poco del tuo dono 
sia passato per sempre nelle sillabe
che rechiamo con noi, api ronzanti.
Lontani andremo e serberemo un'eco
della tua voce, come si ricorda
del sole l'erba grigia
nelle corti scurite, tra le case.
E un giorno queste parole senza rumore
che teco educammo, nutrite
di stanchezze e di silenzi,
parranno a un fraterno cuore
sapide di sale greco.


E' della gentilezza che mi innamoro, di Andrew Faber

 
È della gentilezza che mi innamoro
quando si apre in un gesto minuscolo,
quando trema nella voce di chi chiede scusa,
quando si posa lieve sulla stanchezza del mondo
e solleva il peso che nessuno vede.
È della dolcezza che mi innamoro
quando sfiora le parole non dette,
quando ha la voce roca di chi trattiene il pianto,
quando non chiede nulla eppure resta,
come una luce che balugina nell’ombra.
È della bellezza che mi innamoro
quando si lascia trovare nei solchi del viso,
quando attraversa il disordine senza volerlo domare,
quando si fa ferita eppure canta,
quando si posa su ciò che tace e lo rivela,
quando scivola tra le dita del tempo.
È della rabbia che mi innamoro
quando arde senza distruggere,
quando scompiglia l’ordine finto delle cose,
quando apre varchi invece di chiuderli,
quando si scioglie in un abbraccio.
È della fragilità che mi innamoro
quando si espone senza paura di crollare,
quando non cerca riparo ma attraversa il vento,
quando si piega senza spezzarsi,
quando porge dignità anche nel cedimento.
È dell’amore che mi innamoro
quando conosce ogni paura e non si ritrae,
quando sa essere panico e poi respiro,
quando resta anche senza promessa,
quando scalda persino l’ultimo freddo.
È della vita che mi innamoro
quando inciampa senza vergogna,
quando si smarrisce eppure avanza,
quando attraversa il buio senza offendere la luce,
quando pulsa anche nel niente,
quando si sporge sull’orlo del vuoto
e invece di cadere, fiorisce.

martedì 28 gennaio 2025

Una poesia di Silvia Cozzi: "L'ultimo viaggio"

 

L’ultimo viaggio  

Partirono,

 un lungo viaggio senza più ritorno.

 Il treno nella notte sferragliava.

 Stretti, stipati, cose senza nome,

 mani contratte attorno a un'illusione.

All'orizzonte una sbiadita alba,

 confusa in una spessa e fitta nebbia

 e quella stretta che dentro attanaglia,

 che stringe il cuore in una morsa fredda.

Solo un sorriso pieno d'innocenza,

 limpidi occhi a supplicare amore,

 di bimbi che non sanno che la morte

 è lì in agguato e semina terrore.

Afflitte madri dalle braccia smunte,

 li avvolgono in un disperato abbraccio

 pregando un Dio che al loro sguardo sfugge,

 cercano nella fede quel coraggio

 per dare un senso a quel grottesco andare.

 Non ci sarà la vita ad aspettare,

 né giorni nuovi per scaldarsi al sole,

 ma solo gelo e un pianto di dolore.


Silvia Cozzi

Una poesia di Maria Felicetti

 

Andavano sui treni senza meta,

pigiati come gli acini nei tini,

depauperati, inermi burattini

di un dio che gioca a dadi con la creta.

Andavano bambini, donne, anziani

come fuscelli al vento dell'orrore

tra spettri d'uomo senza alcuno onore

per obbedire a piani folli, vani.

Andavano nei campi della morte

oltre le sbarre di un nero cancello,

ignari come pecore al macello,

accomunati da un'amara sorte.

Andavano in silenzio in fila indiana

nell'ombra che nel giorno s'allontana.


Maria Felicetti

Tre poesie di Ester Guglielmino


Dovremmo interrogarci sopra l'odio,

sul suo seme amaro 

che germina per strada,

sul disumano che piove 

agli angoli del cuore,

mentre la gente parla,

distratta, dell'inverno 

che stenta ad arrivare,

dovremmo sdraiarci sulla terra

conquistarci dal basso

una verticale verso il cielo,

rintracciare la musica 

che fa maturare le radici,

farne un canto di vita

che dia fiato all'umano.


*

Omnia vincit amor,

precipitarono dal cielo

queste parole ubriacate

di mistero, diventarono

nuvola e pioggia, crepitare 

sfuggente di torrente, 

s'innervarono nella roccia, 

ridivennero sorgente. 

Omnia vincit amor

e s'inventarono dei ed eroi, 

utopie sacre e miti universali,

parole temprate col fuoco

vivo degli umani, a spiegare 

come e perché permane 

un brillio d'eterna luce,

dentro il fiato, oltre il male.


*

Mi comprime la testa

questo futuro orizzontale,

questa linea che precipita

e s'inabissa sotto i piedi,

questa parola che sventola

come una bandiera e si svuota

di colori a poco a poco,

diventando solo tutta bianca 

o tutta nera; mi disorienta 

quest'inabilità dell'essere 

vivo davanti all'altro vivo

e mi trapassa i timpani

questo stridìo acuto

che attraversa mondi lontani 

e paralleli, dove 'per sbaglio'

si uccidono i bambini,

mi feriscono i pensieri 

questi occhi sempre chiusi

sul senso inverso del divenire 

disumani, eppure li guardo 

dritti da una vita, per ritrovarci 

con la tua - anche la mia ferita.


Ester Guglielmino


martedì 21 gennaio 2025

Una poesia di Emanuela Sica: "E' lento il declino dei cristalli"


 …è lento il declino dei cristalli

a increspare di neve il cuore

nella 𝑠𝑡𝑎𝑔𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑒𝑙 𝑏𝑖𝑎𝑛𝑐𝑜𝑠𝑝𝑖𝑛𝑜
fermo in questo banco di nebbia
figlio di un tempo notturno
di cui non scorgi il confine
E tu che hai gli occhi
sfiancati dalle assenze
di quelle cose che sapevi essere tue
senti l’eco delle suppliche
a fendere in avanti i passi
muoverti per aprire un varco
oltre il confine dell’ora
Ma a cosa servirebbe liberarti
se il mondo è imploso?
Solo il volo della capinera
cuce l’aria tremula dell’alba
nel canto della vita
che si riveste di luce
e forse ritorna

Emanuela Sica

domenica 19 gennaio 2025

Una poesia di Cortazar, "Il bambino buono"

 

Non saprò slacciarmi le scarpe e lasciare che la città mi morda i piedi,

non mi ubriacherò sotto i ponti, non commetterò errori di stile.

Accetto questo destino di camicie stirate,

arrivo in tempo al cinema, cedo il mio posto alle signore.

Il lungo sregolamento dei sensi mi sta male, opto

per il dentifricio e gli asciugamani. Mi vaccino.

Guarda che povero amante, incapace di mettersi in una fontana

per portarti un pesciolino rosso

sotto la rabbia di gendarmi e bambinaie. 


Julio Cortazar

Di Alessandro Dehò, sull'Epifania

 (Matteo 2,1-12)

Epifania 6 gennaio 2025


Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme e dicevano: «Dov'è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo».


È tutto qui,

tu che nasci,

e noi che accettiamo di lasciarci alle spalle il nostro oriente,

noi finalmente disorientati,

noi che adesso crediamo nelle tracce seminate da polvere di stelle antiche

come un testamento,

noi che non abbiamo più dubbi,

che tu sia nato, 

ora lo sappiamo,

solo vogliamo imparare il luogo: dove?


Dove sei? Adesso, dico

dove possiamo trovarti?

Ci siamo smarriti per questo,

abbiamo percorso sentieri inediti

abbiamo mappato desideri deserti 

solo per poter balbettare 

con cuore commosso 

il nostro bruciante bisogno di te.


(Perché, se tu non sei 

noi non ce la facciamo,

a vivere, non ce la facciamo!)


Siamo venuto ad adorarti,

l’abbiamo capito ormai, 

la verità

la vera verità non si apre a chi vuole comprenderti,

conoscerti, spiegarti, incontrarti,

ma solo a chi sente il bisogno di adorarti,

che è un movimento affettivo,

un portare alla bocca per baciare,

per mangiare,

che è tornare bambini,

tornare a giocare, 

a balbettare,

a ridere per niente

a fidarsi ancora della gente,

a rischiare l’azzardo dell’ingenuità:

come arrivare a Gerusalemme e chiedere

di te ai tuoi assassini.


All'udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo. Gli risposero: «A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta: "E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero l'ultima delle città principali di Giuda: da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele"».


Ormai l’abbiamo capito Signore,

il potere immobilizza,

Erode turbato si chiude tra le mura delle sue sicurezze,

Gerusalemme trema tra le pietre 

e i sacerdoti

e anche gli scribi

proprio perché sanno non comprendono.

Non possono:

dovrebbero smettere le vesti,

ripiegare ruoli e privilegi

dovrebbero rendersi irriconoscibili,

passare per irriconoscenti.


Perdere, solo perdere

questo ci salva.

Saranno zoppi

ciechi,

lebbrosi

peccatori

saranno gli ultimi

i poveri

le vedove

saremo noi quando perderemo la faccia,

saremo noi quando accetteremo di confessare che abbiamo

perdutamente bisogno di te,

saremo noi quando accetteremo di comprometterci con te

 e sopporteremo 

di dover vivere passando sempre da ingenui,

è il prezzo da pagare per non essere

del mondo. 


Donami Signore di vedere

le fortificazioni che mi sono costruito

i bastioni religiosi dietro cui ancora mi nascondo

le sicurezze ideologiche che mi proteggono

aiutami a smascherare chi credevo amico

e perdona tutte le volte che sono stato io

sacerdote e scriba,

per quando stupidamente

ho sviato chi cercava Te 

per strade che io non comprendevo.


Come in una nuova Gerico

Signore annientami

lasciami solo 

e disorientato

con un pugno di stelle lanciate in aria

e un cammino sempre nuovo

dettato solo da un sogno.


Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire da loro con esattezza il tempo in cui era apparsa la stella e li inviò a Betlemme dicendo: «Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l'avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch'io venga ad adorarlo».


Io lo so di avere un Erode in me

che intuisce la verità

che abita il segreto dove tu ti sveli

che sa riconoscere i veri maestri

che ha compreso che dovrebbe imparare l’adorazione.

Io lo so di averlo dentro

un Erode che ha paura di perdere,

di tornare a perdersi,

e che altro non sa fare se non ordinare 

di immolare il futuro pur di non perdere

il presente. Uccidilo,

ti prego: uccidi l’Erode che mi assedia il cuore.


Udito il re, essi partirono. Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima. 


Poi la stella ritornerà

non c’è altra gioia 

che non sia la scia luminosa di te,

non c’è altra gioia che rivedere

la luce che credevo spenta,

non c’è altra gioia che abbassare gli occhi e vedere un bambino.

Non c’è altra gioia,

grandissima gioia, se non lontano da Gerusalemme.


Così è per me la preghiera,

quando mi accorgo,

quando non sono distratto da me.

Così è quando riesco a fidarmi davvero 

di te,

che mi disorienti,

che sorridi dei miei smarrimenti,


e poi mi prendi per mano,

e mi riporti a me

e mi dici: ma non lo vedi che ti nasco sempre dentro?


Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un'altra strada fecero ritorno al loro paese.


La casa,

non il tempio,

desacralizzata l’impalcatura

tutto ormai è sacro,

qui brilla l’oro del divino,

ogni carne sarà consacrata

e il profumo d’incenso invaderà l’aria delle povere cose.


Tutto ormai è sacro

questo conservo nello scrigno 

mentre imparo

un’altra strada

un nuovo ritorno.

 

domenica 12 gennaio 2025

Un pensiero di Massimiliano Bardotti sulla bellezza

 

Etty, la gatta più grande, oggi ha dormito sul divano con Zelda, la piccolina. Le ha dormito vicino e con la zampa anteriore destra teneva le zampe posteriori di Zelda. Sembrava quasi le volesse far sentire che c’era, era lì, la teneva ma non troppo. “Sono qui ma sei libera”.
Poi Zelda si è messa a tremare, si è agitata, come se stesse facendo un incubo. Il respiro si è fatto improvvisamente veloce, scattoso. Allora Etty si è svegliata. Ha guardato Zelda. Si è alzata, si è stirata, e ha cominciato a leccarla, lentamente, con una delicatezza commovente. Zelda si è subito calmata e si è rimessa a dormire. Etty no, invece. Si è fermata a guardare Zelda finché non è stata sicura che stesse dormendo, che stesse bene; poi è salita sul bracciolo del divano, proprio sopra rispetto a dove Zelda stava dormendo. Proprio a dire: “Ora veglio io su di te, non temere”.
Io ringrazio il Cielo di poter vivere con accanto queste creature. Saprei molto meno della tenerezza, del prendersi cura, e anche della gioia, senza di loro. Saprei meno anche della sofferenza, perché quando loro stanno male è difficile, per me, stare bene. E quando Dee Dee è morta ha lasciato una ferita nel mio cuore, e va bene così perché nella terra è necessario fare un varco, per poterci piantare un seme. Sono così grato per ogni ora trascorsa con lei, che non maledirò mai la sua morte, anch’essa foriera di promesse.
Qualche notte fa ho avuto dei disturbi intestinali. Ho passato quasi l’intera notte senza dormire. Etty e Zelda sono state con me. La più piccola voleva giocare, Etty strusciava la sua testa sulle mie braccia e faceva le fusa.
Io non penso, come a volte sento dire, che sono meglio di noi o cose del genere. Credo sia stata una grande intuizione del Creatore quella di darci la possibilità di condividere la vita con loro, con gli animali tutti, con le piante, gli alberi, i fiori, con le stelle, con i giardini e i boschi, con le foreste. Con i fiumi, con il mare, con l’oceano. Con i campi di girasole, con gli uccelli del cielo. 
La nostra vita è costellata di doni preziosissimi. Alcuni restano con noi per molto tempo, altri svaniscono velocemente. Altri ancora sono qui da sempre e ci saranno quando non ci saremo più. Questi doni sono stati pensati per noi, affinché potessimo averne cura. Questo sarebbe potuto bastare alla nostra educazione, perché nell’aver cura è nascosto ogni segreto.
La bellezza, col suo linguaggio mistico, ogni giorno ancora vorrebbe piantare nei nostri cuori il suo seme. Mi sembra sia il dono più grande di tutti che ancora non si sia arresa, malgrado le nostre assurde e violente resistenze.

Massimiliano Bardotti



Un pensiero di Louise Gluck



L'occhio si abitua alle sparizioni. Non sarai risparmiata, né ciò che ami sarà risparmiato. 
Un vento è venuto e passato, smontando la mente; 
ha lasciato nella sua scia una strana lucidità. 
Quanto sei privilegiata, ad aggrapparti ancora con passione a ciò che ami; 
la rinuncia alla speranza non ti ha distrutto. 
Maestoso, doloroso: 
Questa è la luce dell’autunno; si è volta su di noi. 
Di certo è un privilegio avvicinarsi alla fine  credendo ancora in qualcosa.

Louise Gluck

Un pensiero di Cristina Campo su poesia e liturgia

 


Il mondo, blocco ottuso e cieco, racchiude in ogni tempo una filigrana di esseri che vivono secondo regole che non sono di questo mondo. E sono gli esseri che mutano il cuore del mondo.
Liturgia – come poesia – è splendore gratuito, spreco delicato, più necessario dell’utile.
Essa è regolata da armoniose forme e ritmi che, ispirati alla creazione, la superano nell’estasi.
In realtà la poesia si è sempre posta come segno ideale la liturgia ed appare inevitabile che, declinando la poesia da visione a cronaca anche la liturgia abbia a soffrirne offesa. Sempre il sacro sofferse della degradazione del profano.

Cristina Campo