mercoledì 12 marzo 2025

L'autenticità, per Franca Mancinelli

a cura di Maria Borio e Laura Di Corcia

 

Per il secondo ciclo di riflessioni attorno al tema dell’autenticità e la poesia, oggi risponde 

Franca Mancinelli. 

L’autenticità in letteratura è una questione da affrontare a partire dalla lingua. Quando entriamo nella dimensione della creazione, ossia quando la lingua vive nella sua potenzialità originaria, il tema, l’oggetto della scrittura, non è infatti altro che un filtro, un setaccio attraverso cui passa la vita. Non c’è un tema che abbia più valore di un altro o più diritto ad essere espresso. La distruzione di un formicaio piuttosto che il bombardamento di una città. Un passero ucciso da un cacciatore, una donna vittima di femminicidio. Una guerra in corso, una cucina in cui viene preparato uno spezzatino di carne. Spesso ci ritroviamo inconsapevolmente dentro un orizzonte ideologico che stabilisce gerarchie di spazi e di contesti, e che pretende di determinare la direzione dello sguardo che la letteratura dovrebbe avere. Ma la scrittura è ancora oggi, come narra il mito, una tessitura, non tanto per ciò che fa, quanto per ciò che lascia affiorare. Un’opera letteraria è tale quando ci permette di percepire la trama sottile in cui è intrecciato ogni elemento del reale; quando ci mostra lo stesso filo, la stessa materia che attraversa molteplici stati e forme dell’essere. L’identità in cui ci ritroviamo a vivere si allenta, si apre quando entriamo in alcune esperienze come quella dell’arte, della scrittura. Infatti, quando siamo a contatto con la natura autentica della lingua, siamo pienamente dentro questo tessuto del reale, per cui in ogni figura che tracceremo si riverbererà l’altro, e il tutto a cui appartiene. Allo stesso modo, non c’è esperienza vissuta, per quanto drammatica, per quanto eccezionale, che possa garantirci di essere autori, o di essere degni di ascolto. Possiamo esserlo, nella misura in cui dalle nostre parole traspare l’arazzo della vita, come se le stesse lettere dell’alfabeto sbiadissero, per fare emergere l’originaria trama. La pagina bianca sta di fronte a noi come uno spazio di visione, un luogo in cui la crosta del reale si infrange, e possiamo finalmente, anche se per pochi istanti, sporgerci oltre la superficie.

*

Ognuno si consegna al proprio sangue, come pagina all’inchiostro. L’autenticità nella scrittura ha a che fare con una forma di misura, con un sottile e inderogabile equilibrio. È intrinsecamente legata a un’ecologia della parola, alla consapevolezza che è il silenzio la nostra risorsa più preziosa, la fonte primaria di energia, di connessione con lo strato più profondo del reale, da cui riceviamo il nutrimento per creare. Più possiamo sostare in questo spazio più la nostra lingua è rigenerata, riportata alla vita che le appartiene, nello stesso nastro millenario che si avvolge e riavvolge.

Si scrive a partire da ciò che precede la parola, dall’esperienza del non dicibile. È da lì, da quell’oscurità, che ogni volta risaliamo, riportando i segni del nostro fallire. Tornando alla lingua infatti perdiamo la totalità in cui eravamo immersi, ma conserviamo il ricordo di ciò che è accaduto.

La poesia è fatta di parole ma ci porta al di là di esse, ogni parola poetica è una soglia. Quando un testo è invece scritto a partire dalle parole, si avverte un senso di claustrofobia. È il sintomo della superficie: non c’è stata alcuna discesa precedente. Siamo semplicemente riconsegnati a ciò che appare davanti ai nostri occhi.

Credo, come afferma Zanzotto, che la lingua sia ancora depositaria dell’autentico. Può assomigliare forse a un rifugio, a un tunnel che porta oltre confini altrimenti sbarrati, a un luogo nascosto dove si organizza la resistenza. E dove si pratica quella che il poeta di Soligo chiama «l’eterna riabilitazione di un trauma di cui s’ignora la natura»; uno spazio in cui si rielabora la catastrofe che, prima di ogni cosa, è questo nostro venire al mondo.

*

«Nel nostro mondo, camminiamo sopra l’inferno guardando i fiori» (Kobashi Issa). Quei fiori appartengono alla realtà o a una creazione dell’immaginazione che ci aiuta a sostenere l’orrore? Non importa distinguerlo. Tracciare confini tra la nostra interiorità e il mondo è come dividere le nuvole dal cielo, le onde dal mare. I fiori che nomina Kobashi Issa sono uno di quei dettagli che l’occhio disattento, chiuso nei percorsi di ogni giorno, non scorge. Chi vive determinato dal lavoro e dalle azioni da compiere, non conosce quei fiori. Al loro posto ci sono gli obbiettivi, i compiti che aiutano a non lasciarsi ingoiare dal vuoto, nascondendolo per un po’. Quei fiori invece non coprono nulla, crescono proprio accanto al baratro. Brillano come una candela nel buio. Sono lì che aspettano ognuno di noi, nel disarmo. Nella possibilità che abbiamo di tornare all’infanzia, per riconoscere la bellezza e continuare a meravigliarci. Perché quei fiori, per quanto ai margini del nostro cammino, sono capaci di orientarlo, di darci la forza per fare i passi che stiamo facendo, sopra l’inferno.

Sia l’inferno che i fiori sono nello sguardo di Kobashi, nella sua consapevolezza. Se non nominasse l’inferno quei fiori potrebbero essere finti, retorici, decorativi. Così si stagliano invece come un segnale, una direzione di salvezza, ciò che ci permette di non precipitare. Se invece non nominasse i fiori, la scena si farebbe del tutto cupa, i passi sarebbero dovuti a qualità umane come la resistenza e il coraggio. Non è così, la direzione di quei passi è determinata dai fiori, dalla loro presenza umile e insieme miracolosa. Questi fiori non sono né più né meno reali dell’inferno. La parola poetica fa esistere entrambi. C’è però una dimensione in cui ciò che è apparentemente più labile, più prossimo all’immaginazione e al sogno, contiene in sé una realtà che va oltre la superficie, oltre la datità, senza negarla, aprendola a una condizione dove ciò che appare negativo viene ricaricato positivamente, ricondotto nella vastità generante del cosmo. Non si tratta di una menzogna o di una finzione, ma di una trasformazione che rende più “vera” la realtà, avvicinandola all’origine, ricongiungendola alla trama infinita del cosmo. Ciò che in fondo ci aspettiamo ancora dalla poesia (e che, probabilmente, costituisce la sua essenza) è questa radicale inversione di rotta. Qualsiasi contenuto l’esistenza ci presenti, per quanto tragico e alienante, riconosciamo l’autenticità della parola poetica proprio per la sua capacità di guidarci attraverso di esso, senza alcuna invenzione o nascondimento, nella forza di un movimento di metamorfosi.

*

Penso ai più grandi autori della nostra letteratura e vedo, più che i loro volti, una cornice vuota, l’intelaiatura di una finestra. La forza che li conduce a noi, superando distanze di spazio e di tempo, di lingue e di culture, è proporzionale alla misura in cui attraverso se stessi e la loro opera hanno creato uno spazio perché la vita potesse parlare. I loro libri sono infatti prima di tutto anonimi, creazione di tutte le esistenze confluite in quel punto, e solo in un secondo tempo prendono, per il mondo, il nome di autori come Rainer Maria Rilke, Fernando Pessoa, Thomas Eliot, Giacomo Leopardi… Come dice Paul Eluard in due versi che porto con me dall’adolescenza: «Doveva pur esserci un viso / Con tutti i nomi del mondo». Sono tratti da una sua poesia tradotta da Fortini. In questi versi sento ancora l’espandersi di un amore che trabocca fino ad incarnarsi in una persona, come un’acqua che trova una riva: per esistere, per potere essere riconosciuta. Chiamiamo infatti il mare Adriatico, Ionio, riferendoci alla stessa acqua del pianeta. Qualcosa di simile accade in quel viso che a un tratto sembra illuminare la nostra esistenza. Risponde a un nome, ma tutti i nomi del mondo continuano a risuonare entro i suoi contorni, tutti i nomi del mondo precedono infatti l’esistenza di quello spazio amato, dai lineamenti umani. È autentico l’amore che ha questa tensione, questo movimento che dall’infinito della vita conduce a un’individualità, senza chiudersi e morire in essa, ma continuando a vibrare della vastità sconfinata che gli appartiene. Questo stesso movimento segue la poesia. Non è infatti concepibile la poesia al di fuori di un orizzonte collettivo: la pluralità è connaturata alla materia stessa della lingua che si mantiene in vita attraverso la trasmissione di significato, oltre i confini dell’io verso gli altri, nel tempo presente, come in quello passato e futuro.

*

La poesia è una forma di rinascita. L’inizio di un’altra vita nelle parole. Attraverso la lingua infatti è data ad ognuno la possibilità di frangere la scorza del mondo e avvicinarsi alla propria essenza, a ciò che germina in noi. Questo principio di creazione si manifesta nei vuoti, negli interstizi del nostro io, con la stessa tenacia ottusa delle piante che crescono tra le crepe del cemento. Come autori ci adoperiamo a costruire – una trama, una forma, una struttura – invece il processo creativo ci chiede di sostare nelle zone in cui le nostre tecniche e strategie affinate negli anni si rivelano inutili. Siamo chiamati ad abbandonare il tempo della volontà e dei progetti e a riconciliarci con il movimento ciclico che opera in noi come in ogni altro elemento dell’universo. Questo moto circolare leviga la nostra mente, la rende sempre più umile, sempre più vicina alla materia di cui è composta. Molto ci resta da imparare dai sassi. Quelli di mare e di acqua dolce, per esempio, perdono la loro lucentezza quando si asciugano al sole. Così noi quando usciamo dal cerchio. La nostra bellezza, la nostra autenticità di esseri umani, sta nell’essere pienamente immersi nella dimensione che ci appartiene.

Nella composizione di un testo, il lavoro consiste nell’abbandonarci al flusso delle immagini, nel nostro farci il più possibile vuoti e quindi capienti verso la più ampia portata di visione. Dovremmo renderci capaci di contenere, di accogliere e allo stesso tempo di comprendere, come suggerisce il verbo latino cápere. Più che di una comprensione razionale si tratta infatti di una disposizione di apertura. Dopo che il testo ha trovato una prima forma sulla pagina, il lavoro diventa quello di togliere tutto ciò che grava sulla lingua, che ostacola il fluire delle immagini: espressioni poetiche, termini astratti, residui della tradizione, così come ripuliremmo un corso d’acqua dai prodotti della nostra esistenza. Tutta l’attenzione si concentra e calibra attorno all’equilibrio tra abbandono e cura, tra obbedienza e controllo. Ci sono elementi indispensabili alla vitalità del testo che restano celati, immersi nella materia della lingua. Se li sottraggo nel mio labor limae l’impressione è quella di immagini che restano sospese, sradicate dall’esperienza che le ha generate. Il testo ne risente, registra del nostro labor lo sforzo, la fatica. Accade qualcosa di simile a un respiro interrotto troppo presto. C’è invece una segreta adesione alla vita della lingua che opera dentro la sua natura, nella sua autenticità: conosce quel portare parole che toglie energia al testo, e quel togliere che ne aumenta la forza.

Nessun commento:

Posta un commento