martedì 29 aprile 2025

Eldo Stellucci su "Dioniso"


Ph Miriam Bruni


Una coscienza dionisiaca ha bisogno di umidità, l'umidità dell'anima.
Hillman ci dice che "Dioniso è un dio dell'umidità e il fine della discesa è appunto l'umidificazione".
Dioniso ci riporta al corpo, alla corporeità, se vogliamo alla corporeità dell'anima.
E' la via di cura di una depressione che non segue le vie eroiche dell'Io
che tendono ad avere un movimento ascendente, verso l'alto.
Dioniso porta in basso nelle profondità erotiche della vita, del corpo, dell'anima.
E' così che Dioniso incontra la sua Arianna, l'Anima.
Da questo incontro tra Vita e Immaginazione, come ci suggerisce Hillman,
nascono i momenti più significativi e creativi delle nostre esperienze di sincronicità.


                                                                  Eldo Stellucci

venerdì 25 aprile 2025

"Mentre attendo che la vita arrivi", di Marco colletti

 




Mentre attendo che la vita arrivi,
mi libro in visioni dal folgorante
conforto: le calde nuvole che
avvolgono epifanie di santi
immacolati, il rubino dei manti
che schioccano al vento
le speranze degli umili,
inginocchiati negli interstizi
del reale. Sole e colombe,
i raggi disegnati dalle loro ali,
il rapido flutto del pulviscolo
che gioca con l’ombra e tutto sfoca,
mi appaiono come giganti
di salvezza al grido muto,
alla sofferenza che non ha
più parola, se non questa
quieta indomabile poesia.


Marco colletti

La voce del silenzio, di Marco colletti


Morbidi incanti mi cucivano nella gola
le parole del silenzio. Il mio tacere
si faceva suono attraverso i miei occhi
e gocciolava nella campagna, raccogliendo
dentro di sé il rauco brusio degli stormi.
Non bastavano più i corvi a filtrare
la mia voce del silenzio e mi spezzavo
le ciglia ad una ad una per poter vedere
meglio, per far parlare i miei occhi
dappertutto. Se le mie dita si fossero
allungate, avrei toccato l’orizzonte
e non sarei più tornato. Ora non sarei qui,
ma a parlare chissà dove, senza
la mia voce, rimasta dentro il tempo.

Marco Colletti
n

domenica 20 aprile 2025

Emilio Capaccio: "Che cosa vogliono da me queste nuvole"

 

Che cosa vogliono da me queste nuvole
così bianche e frastagliate
frivole d’aria, lampanti di luce?
In che lingua d’altitudine mi parlano
quando passano nei caldi planisferi
dell’estate?
O, invidio le nuvole
Il loro tempo che non segnano gli orologi
Vanno agli angoli dei cieli dove finisce ogni età
assegnate a un ordine di precarietà universale
non temono decreti di venti
non temono dissolvenze
fedeli all’effimero apparire
del loro comandamento
Mi ricordano la fugacità di ogni danza che danzo
di ogni volo che si compie
e la condanna di chi resta fisso a guardarle
con le radici nella terra
(con le braccia troppo corte sulla terra)
seppur passa, senza andare passa
vittima dello stesso comandamento

Emio Capaccio

giovedì 3 aprile 2025

Tre poesie di Vladimir Holan

No, non andartene ancora...


No, non andartene ancora, non temere i sussulti,

è l’orso che si apre gli alveari in giardino.

Si placherà. Strozzerò anch’io il discorso

come la fretta dello sperma serpentino

verso la donna nell’Eden.


No, non andartene ancora, non abbassare il tuo velo.

Il metilene dei còlchici è divampato nel prato.

Sei tu sempre, vita, anche quando sostieni:

Anelando aggiungiamo. Ma l’amore

non ha somiglianza...





Cessato è il canto delle sirene


Questa notte nei sogni mi dicevo:

«Amara è la sete e così sbalordita, che beve dal fato

come un fantoccio di stracci gettato da un bambino in un orinale.

Amara è la voluttà, perché ha tutto

in una così urgente vicinanza, che persino il mistero è fuori mano.

Amara è l’arte e così nera, che potrebbe scolorirla

solo sudore di ascelle di donna, se la morte fosse donna.

Amara è la coscienza che si aggrappa alle cose

come l’ottuso rasoio con cui sbarbano i morti.

Amaro è tutto questo – e tuttavia

sarebbe bene scuotersi e vegliare!».


Ma erano gli angeli quadricèfali del carro funebre

che mi portava via al silenziario,

erano gli angeli che io sentivo

bisbigliare per sempre l’uno all’altro:

«Non destarlo, piano, non destarlo!».




L’ultima


L’ultima foglia trema sul platano, perché sa bene

che ciò che non vacilla non è saldo.

Tremo, mio Dio, perché intuisco

che presto morirò e dovrei essere saldo.

Da ogni albero cadrà anche l’ultimissima foglia,

perché esso non è privo di fiducia nella terra.

Da ogni uomo cadrà anche l’ultima finzione,

perché la tavola nell’obitorio è del tutto semplice.

La foglia non deve, Dio mio, supplicarti di nulla,

l’hai fatta crescere e non ha guastato il tuo intento.


Ma io...




Vladimír Holan (Praga 1905 – ivi 1980). Cultore, in un primo tempo, della poesia astratta, spesso indecifrabile (Il ventaglio delirante, 1926), seppe farsi appassionato testimone degli anni tragici della Boemia (Settembre 1938) e limpido cantore della nuova Cecoslovacchia (Gratitudine all’Unione Sovietica, 1945; A te, 1947). Dal 1948 si chiuse in un isolamento totale, immerso nella visionaria e dolorosa meditazione da cui nascono le altre sue opere: Mozartiana (1963); Senza titolo (1963); In progresso (1964); Una notte con Amleto (1964); Trialogo (1964); Il dolore (1965); La morte e il sogno e la parola (1965); Ma c’è la musica (1968); Un gallo a Esculapio (1970); Ovunque è silenzio (1977).



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Testi selezionati da Una notte con Amleto e altre poesie (trad. di A. M. Ripellino, SE, 2018)


da   https://www.avampostopoesia.com/poeti/vladimir-holan