La testa sul cuscino, un sasso nello stagno a sprofondare, nella stanza si propagano i pensieri come cerchi e tu non senti dal tuo regno bianco ovatta la ferita che mi buca la corteccia.
Penso ai morti del paese
a cui non pensa più nessuno.
a cui non pensa più nessuno.
Gli ingrigiti fiori finti, i fiori secchi,
il gelo che fa tana nelle tombe scoperchiate.
Quanto resta. Cosa resta in una foto
Una scritta, una data, qualche oggetto.
Cosa resta. Penso a tutti i trapassati
che non lasciano una scia.
Benedico i loro nomi,
percepisco il loro sonno
come un ago, la mia notte
nella cruna della loro.
Allora tu ascolta la preghiera delle foglie
ferite dall’inverno, insegnami
a chiamare per nome tutti i falchi
come fosse un rito antico per il bene,
spalanca la tua voce nello spazio
tra le fronde, aspetta la stagione
che riporta tutti i voli alla quercia
originale, insegnami a capire questo trillo
che fa eco alla parola e poi la scava
qui sul petto. Allora io ritrovo le briciole
perdute fra le orme, la casa nascosta
dal canneto che raduna gli amori
delle allodole, le pietre sul capanno diroccato
e la grazia dei germogli in mezzo ai rovi.
I rovi tra la neve troveranno un’altra luce
un bastone di pastore a scavare gli anemoni
e le bacche marce nella terra
a furia di urlare il mio nome si scheggia
la tua voce o si affila come la punta di ghiaccio
che pende sottile dalla casa diroccata –
allora tu dammi un altro luogo
in cui inselvatichirmi, una pelle di ghiro
mentre dorme nel rifugio fra le travi del pagliaio
chiamami col verso dei falchi o delle volpi
donami le orme del lupo, gli occhi dei piccoli
che cercano la madre e la sua bocca
feroce quando afferra il nuovo nato dalle zampe
e il sangue che sgorga si fa pietra nel gelo,
ossidiana – rovescio del bianco nel bianco.
Ancora ritorna lo sparviero
il nibbio a piantare l’urlo nella schiena
a percorrere il dolore come un dito
che tocca la ferita e la ripara
la stagione degli amori ritorna
e spalanca i richiami dei tordi nella nebbia
se getti il germoglio sul cemento
lo ruba la gazza e lo conserva
nel nido poi scopre il tuo segreto
e smette di brillare ogni preghiera
ancora ritorna lo sparviero
la poiana caduta a capofitto.
La tua bocca mi bacia ed è nido
in cui covo la ferita, mi aggrappo alla tua voce
che è sottile come un ago, mi arrampico
al tuo petto, percorro tutto il bosco in cui
cresce il tuo respiro, il legno che brucia
e mi disseta, mi dà aria che è buona
per il cuore, gli dà forma, lo contengo
sul palmo della mano, gli faccio
la guardia nottetempo, poi mi perdo
nell’oceano degli occhi, profondi misteriosi
e antichi come il fuoco, la tua bocca
mi bacia ed è il nido da cui volo verso il mare.
Lorenzo Pataro
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