Ho rigettato il mio nome,
i numi del passato, la stirpe,
il marchio ingombrante delle radici
in nome della libertà.
Ho tagliato il laccio tiranno,
schiacciato dal giogo della legge
come uno schiavo.
Le mani ribelli e bramose
cercavano corone di gloria,
ma su strade ubriache e prodighe
ho incontrato stelle di fango e catene.
Ho smarrito il cuore
dentro notti da rubare,
babilonie per stordirmi,
dissipando ogni dono,
come falena impazzita tra miraggi di luce
che svaporano in breve
lasciando in salario carrube e ferite.
Ma nel vuoto riarso uno spiraglio
la voce del pane, il conto del bene
a germogliare resipiscenza,
svegliare passaggi, svelare l'assenza,
aprire la via del ritorno.
E lì mi hai atteso
come l'orizzonte assetato l'alba,
come padre amoroso a vegliare
la soglia del mio buio.
Avevi sognato il mio giorno.
Non ero che un morto,
un punto lontano.
Mi sei corso incontro.
Rugiada di perdono ci ha colto, avvolto,
nell'abbraccio caldo della pace.
Era uno il pianto,
linfa della vita restituita,
e nella resa nessun fuoco a mancarci.
Ho visto di nuovo.
Ero nel tuo stesso palpito.
Come un figlio. Il tuo piccolino.
Mi hai rivestito dei paramenti della libertà.
Hai fatto festa solo per me.
Con un'alleanza di giglio mi hai cinto.
Incorruttibile è la mia eredità.
Ora sono avvento di cielo,
figlio di re
Nessun commento:
Posta un commento