Nelle tue poesie sembri vestita di seta, sembri indossare un abito che il vento può modellare, levigare e persino togliere, senza che questo crei imbarazzo. Poi, però, a una lettura più attenta, ciò che sembra evidente è punteggiato di fondali, di qualche ostacolo da aggirare, di strettoie involontarie e di indicazioni sottaciute.
Ecco allora che, di fronte alle nostre esigenze inascoltate e alle ferite mal curate, confondiamo i rami con le foglie, ci appoggiamo a muri fragili, ci tuffiamo nella bellezza, ci affidiamo alle carezze degli angeli, scopriamo la solitudine, ci interroghiamo su che cosa ci lascia il dolore e, infine, ci abbandoniamo alla sola cosa in grado di attraversare, rovistare, trasformare, sigillare lo spessore.
La sola cosa che consente di guardare qualcuno srotolato, rilucente, disarmato. La sola cosa che permette di dire senza arrossire: “Vangami. Ripesca il mio color di mora” (difficile spiegare quanto arrivi intensa questa splendida poesia; la stessa cosa accade a questo verso: “Prendimi come fa il sole quando possiede la siepe e ne muta finanche il colore”).
La sola cosa che ci permette di ricordare il profumo degli abiti puliti sotto il ferro e il vapore. Lucore del tatto, mani come candele accese, capelli morbidi. I figli, Dio, l’amore. Qualcuno a cui fare da guanciale, da estuario di sogni, per cui diventare spiga, fiume, pane. Perché, al di là del nome, è questo il divino fulgore “che conosce il mio nome e lo sa pronunciare”.
Mi piace moltissimo anche la poesia in cui citi Tolé. Ha un nome così bello quel luogo. Non l’ho mai visto, ma la prima volta che l’ho sentito avrei voluto anch’io scrivere qualcosa. E’ raro, nella nostra lingua, che i nomi siano accentati. Ora so che prima o poi vi andrò a cercare le nubi grasse di luce che covano le cime dei castagni.
Grazie, Miriam, per le tue poesie. Le ho lette cercando di fare come i pittori cinesi di fronte ai colori dei bizantini: levigando la parete per ascoltarle e, per quanto possibile, rifletterle. Mi hai fatto un grande regalo.
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