giovedì 21 novembre 2019

Su Cvetaeva

Una donna per bene non è una donna, scrisse Marina Cvetaeva nell’inverno del 1919. Fu un terribile inverno di povertà, giovinezza e dolore, lei aveva ventisette anni, frequentava poeti, scrittori, pittori, attori di teatro, si infatuava di uomini e donne mentre il marito Sergej Efron era lontano, arruolato nell’Armata bianca: lei lo aveva sposato per amore e con amore gli rimase accanto, lo amò mentre era assente (Serena Vitale, la più grande studiosa italiana di Marina Cvetaeva, non esclude che Sergej si fosse arruolato in seguito al primo tradimento di Marina con suo fratello Petja, attore), lo amò anche mentre non lo amava più e andava incontro, tutta, al primo che passava per strada. A ognuno chiedeva amore smisurato e sfrenata tenerezza e libertà, a ognuno chiedeva che le provasse, attraverso l’amore, che lei esisteva davvero. Che era in vita. Ogni indizio terrestre, ogni bacio sognato in Marina Cvetaeva era un incendio dell’anima. “Io devo essere amata in modo del tutto straordinario per poter amare straordinariamente”, scrisse a Aleksandr Vasil’evic Bachrach, un ragazzo di vent’anni di cui si era innamorata, o invaghita, a cui mandò molte lettere, parlò dell’anima, corresse le parole sbagliate o goffe, dedicò poesie, e a cui chiese, imperiosa: “Voglio da Voi, ragazzo, il miracolo. Il miracolo della fiducia, della comprensione, della rinuncia”.
Marina Cvetaeva chiedeva ai suoi amori, tutti, la rinuncia a una vita insieme, la comprensione profonda di quel modo di stare al mondo come in un perenne incendio che aveva al centro di ogni cosa la poesia e il bisogno di scrivere, e chiedeva la fiducia assoluta in un amore che conteneva in sé un particolare tipo di fedeltà – la fedeltà all’anima, la fedeltà a se stessi. In questo senso Marina Cvetaeva, all’inizio del secolo scorso, prima, durante e dopo la Rivoluzione, a vent’anni come a cinquanta, nella sua vita di donna innamorata e di poetessa che non poteva annientarsi per amore, per non diventare cieca di fronte agli alberi, alla neve, al mondo (“la creazione artistica e l’amore sono incompatibili”), in questo senso, con addosso quell’unico logoro vestito marrone, con i figli e un marito a cui scriveva lettere d’amore, Marina rivendicava per sé la certezza, ma anche la naturalezza, di non essere per bene. Di andare incontro agli altri con le braccia protese, e dare, e prendere, e chiedere amore, dolcezza, affetto, e cercare ogni volta una fusione.
L’amore di Marina Cvetaeva è un’arte poetica che comprende tutto, è un modo di vivere che a volte è disincarnato, costruito sopra l’assenza dei corpi, fatto soltanto di parole, a volte distrattamente erotico, ma è un amore in cui, se ci si bacia, ci si ama (“io ho questa stupida convinzione: se baci – allora vuol dire che ami!”). Lei scrisse di non amare il mare, perché era “troppo simile all’amore. Non amo l’amore (aspettare quello che mi farà)”, ma passò gli inverni e le primavere e l’esilio a ricoprire ogni cosa d’amore e a mendicare amore, come un carburante per trovare le parole, per conoscere il mondo e per sentire di esistere. Per soffrire, soprattutto: Marina diventava infelice appena l’amore si scontrava con la realtà. Già sua madre era stata infelice in amore, aveva rinunciato all’uomo che amava, sposato, per lasciare che un altro dicesse di lei “mia moglie”, aveva accettato che un professore non amato diventasse il padre delle sue figlie: Marina lo sapeva e ne era orgogliosa. Da bambina lesse di nascosto dai grandi “Eugenio Onegin”, il poema di Aleksandr Puškin (Tatiana e Onegin non si amarono mai, pur amandosi sempre: all’inizio lui respinge Tatiana, alla fine Tatiana respinge Onegin): in un saggio su Puškin , nel 1937, Marina Cvetaeva scrisse che quell’amore non riuscito “predeterminò in me tutta la passione per l’amore infelice, non reciproco, impossibile. Da quel preciso istante non ho voluto essere felice e con questo mi sono condannata – al nonamore”.
Il nonamore ha vissuto dentro molti amori, il nonamore cresceva perché l’amore era incompatibile con la vera ossessione della vita: la scrittura. La scrittura ha guidato ogni gesto di Marina Cvetaeva, e la irritavano le parole imprecise, le domande stupide, i pensieri meschini, la vita priva di poesia (“trovate parole che mi incantino: credo soltanto agli incantesimi”). Marina si irritava anche per l’amore eccessivo, cieco, ottuso: in una lettera a un amico, prima della Rivoluzione, racconta la sua formula dell’amore, anche se è forse ancora piena dell’invincibilità della giovinezza. L’amore per lei era prima di tutto comprensione, riconoscimento, condividere una passione: “Voglio leggerezza, libertà, comprensione – non trattenere nessuno e che nessuno mi trattenga” (per questo amò Boris Pasternak, amò Rainer Maria Rilke – “E’ così raro che le mie mani vogliano qualcosa”, “Posso baciarti?”, “Io ti amo e voglio dormire con Te, lo dico con altra voce, quasi nel sonno, già nel sonno” – e amò i poeti e le poetesse e chi si incendiava come lei per un verso, per l’albero al bordo della strada).
“Quello che voi chiamate amore (sacrificio, fedeltà, gelosia) tenetelo in serbo per gli altri, per un’altra – io non ne ho bisogno. Io posso amare solo la persona che in una giornata di primavera a me preferirà una betulla”. Marina civettava, leggera, danzante, e raccontava compiaciuta all’amico di quanto si fosse infuriata perché, passeggiando per il Cremlino con un uomo, un amante, un poeta, “una persona incantevole”, quest’uomo le parlava incessantemente di lei. “Come potete non capire che il cielo – alzate la testa e guardate! – è mille volte più grande di me, come potete pensare che in una simile giornata io possa pensare al Vostro amore, all’amore di chicchessia!”. Era fiera di essere così, libera, anticonformista (avrebbe odiato questa parola), interessata più al cielo che all’uomo ardente d’amore per lei. Totalmente estranea all’idea di dover essere, negli anni Venti, una ragazza per bene. “Non è facile amare una cosa difficile come me”, scriveva più tardi, con gli anni che le avevano lasciato addosso segni e lutti e dolore e solitudine, e non era facile per gli uomini a cui protendeva le braccia e le parole tenere vivo quell’amore, o almeno corrispondervi pienamente. Marina non si occupava dei pettegolezzi e non aveva pensieri meschini (“Non baciarsi mai con nessuno – lo capisco – cioè non lo capisco, ma non irrimediabilmente – ma se ci si bacia –, con quale pretesto non andare oltre? Buonsenso? – Una bassezza! mi disprezzerei. Poi lo ami di meno? Non si sa, forse di meno, forse di più. Fedeltà? – Allora non baciare”), ma davanti a questa sfrenatezza, a questa dismisura di sentimenti e di parole e di attese, davanti all’attesa di un miracolo (“vi stringo affettuosamente la mano e attendo da Voi prodigi”) gli uomini dentro la vita dei giorni di Marina spesso fuggivano, impauriti, oppure le davano appuntamenti a cui lei mancava per volontà, perché preferiva “amare gli assenti” dentro il paese della sua anima, e attribuire loro anche le qualità che non possedevano: far combaciare l’amore con l’idea dell’amore.
Sapeva che avrebbe rovinato l’amore con gli inciampi dei corpi, con l’incapacità dell’amato del momento di essere all’altezza di uno slancio, di un’esaltazione che comunque lo scavalcava e lo faceva rimpicciolire, sbiadire, e infine sovrapporsi a un altro. E poiché lui rimpiccioliva, Marina stessa si sentiva rimpicciolire, le cadevano le braccia che aveva proteso, soffriva per i silenzi, per il pallore del sentimento che riceveva indietro, magari si annoiava, smaniava, si svuotava: “Posso portare avanti dieci rapporti (che orrore: ‘rapporti’), insieme e convincere ognuno e subito, dalla più profonda profondità, che è l’unico. Ma non tollero che mi si voltino le spalle, neanche appena appena. Mi fa MALE, capito? Io sono una creatura scorticata a nudo, e tutti voi portate la corazza”. Marina era carne viva, e nonostante la fame di vita non era fatta per la vita. Pretendeva una “irrimediabile tenerezza” da ogni uomo che incontrava, chiedeva loro di essere spalancati, di diventare vivi per lei, e in cambio offriva un amore “di identità”, un amore diverso, specialissimo, difficile, forse impossibile, troppo moderno, ma autentico. “Oh, molte donne vi hanno amato e vi ameranno più forte. Tutte – di più. Nessuna – così”. Non accettava di essere amata per ciò che non era o nonostante ciò che era, e certo non per la donna per bene che avrebbe dovuto essere. Non chiedeva perdono di essere così: ossessiva, altrove, infedele, mutevole, totalmente libera, presuntuosa, selvatica, a volte materna con esseri fragili e vanitosi, capace di dedicare le stesse poesie a uomini diversi, e di dire ogni volta: è la prima volta. A uno di questi amori un giorno scrisse: “Qualcosa è finito. Amo un altro – non si potrebbe dire in modo più semplice, brutale, sincero. Ho smesso di amarvi? No. Voi non siete cambiato e io non sono cambiata. E’ cambiata una cosa soltanto: la mia dolorosa concentrazione su Voi”. Era sincera, era libera, era precisa e spietata anche nell’individuare il nonamore e nel dire addio. “Com’è successo? Oh, amico, come succedono queste cose?! Io mi sono slanciata, l’altro ha risposto, ho ascoltato parole grandi, parole come non ce n’è di più semplici e che forse sentivo per la prima volta in vita mia. E’ un ‘legame’? Non lo so. Io sono legata anche dal vento tra i rami. Dalle mani fino alle labbra – e dov’è il confine? E c’è – un confine?!”.
Ecco, Marina Cvetaeva non aveva confini e amava senza confini. Era trafelata, sola, isolata, continuamente abbandonata e, una volta superata la giovinezza, sempre più costretta a rinunciare a tutto, tranne che a scrivere. A prendere la distanza da tutto e a sentire, sempre di più, l’impossibilità di vivere. Ma l’amore in lei era proprio questo: un modo per andare più vicina alle cose. “L’amore è innanzitutto la nostra lontananza dalle cose, nel migliore dei casi – annullamento di questa distanza, cioè fusione”. Stava stretta in ogni persona, in ogni sentimento, come in una gabbia, e soffriva di avere accanto persone così ragionevoli, così rispettabili, così attente ai confini e alla vita esteriore, che le chiedevano di “sistemare le cose” oppure si dileguavano, sopraffatti dalla sfrenatezza. A lei non importava di essere né ragionevole né rispettabile, per tutta la vita oppose una coraggiosa resistenza alla rispettabilità. Una donna per bene non è una donna. Una donna per bene non è una poetessa. E quando la poetessa Marina Cvetaeva incontrò, per lettera, il poeta, lo scrittore Boris Pasternak, s’innamorò completamente. Era il 1922, lei aveva trent’anni, lui trentadue: diventarono indispensabili l’uno per l’altra. Affini, vicini, irragionevoli, lontanissimi. Forse lui solo riuscì davvero ad amarla come lei chiedeva di essere amata: “Oh, Marina, come vi amo! Con quanta libertà, naturalezza, con quanta preziosa chiarezza! Come vorrei la Vita con voi! E prima di tutto quella parte della vita che si chiama lavoro, crescita, ispirazione, conoscenza”. Lei gli rispondeva: non posso. “Come vivere con un’anima – in una casa? Nel bosco – forse – sì”. Ma lo amava in modo totale, dedito, ininterrotto, lo costringeva a vivere, a scrivere, gli intimava di essere vivo, e voleva, nelle lettere, un figlio da lui. Avrebbe voluto chiamare il proprio figlio, il terzo figlio maschio avuto da suo marito, Boris (“è stato Boris finché nessuno lo sapeva. Dopo che ho pronunciato il suo nome, ho provato gelosia del suono”). Marina Cvetaeva e Boris Pasternak si scrissero per quattordici anni, si sostennero, furono gelosi l’uno dell’altra, furono travolti l’uno dall’altra, essenziali l’uno per l’altra. “Tu mi sei affine tutto, da parte a parte, terribilmente e angosciosamente affine, come io a me stessa – senza asilo, come le montagne. (Non è una dichiarazione d’amore: di destino)”. Lui la aspettava, lei non andava, lei lo aspettava, lui lasciava la moglie per un’altra donna. Come Onegin e Tatiana, come nella “libertà puskiniana” che a loro veniva data in cambio della felicità, dell’incapacità di una vita insieme, ma nella certezza di due vite simili. Marina diceva che Boris era come un lampione per strada, inaggirabile: ovunque si voltasse a qualunque cosa pensasse, lui sorgeva, era lì, dentro i pensieri, nelle poesie, nei libri, nella musica, nelle notti sveglia a scrivere, nella solitudine, insomma in tutta la sua vita non felice e mai abbastanza piena d’amore. “E sempre, sempre, sempre, Pasternak, in tutte le stazioni della mia vita, accanto a tutti i lampioni dei miei destini, lungo tutti gli asfalti, sotto tutti gli ‘sghembi acquazzoni’ – sarà sempre la stessa cosa: il mio appello, il Vostro arrivo”. E non fu mai un tradimento, fu sempre e soltanto: l’amore.

Di Annalena Benini su Minima&moralia blog

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