La poesia sa la ferita. Non la dissimula né la esibisce. Non la nega né la cancella. La dice. E mentre la dice la solleva – trattenendola, immobile, nella propria luce: la muta di stato, la trasfigura nel linguaggio della bellezza. Perciò la ferita, per un attimo, sembra come essersi rimarginata, quasi pare scomparsa. Ma è una illusione. Anche sulla pagina scritta, e fin dentro ogni verso e ogni sillaba, il sangue continua a spargersi e a scorrere a rivoli – lo strazio, ancora, resta non medicato.
Non è raro che la poesia celi in sé un sentimento di pena e quasi di vergogna per lo splendore della propria bellezza, così macchiato di sangue.
I poeti conoscono la sostanza materica, densa, “carnale”, delle parole. Spesso ce la fanno percepire, sillaba dopo sillaba, così intensamente che noi arriviamo quasi a sentirne – sulla pelle, nell’anima – la pressione dolorosa. Altre volte invece, simili a bizzarri equilibristi del linguaggio, le fanno volare nell’aria, le parole, quasi giocassero, sfidandola, con la legge di gravità. Ma anche in tal caso non dimenticano, non dimenticano mai – e solo per questo sono veri poeti – quanto fortemente e duramente ogni singola parola pesi.
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