domenica 8 agosto 2021

Estratto da un'intervista a Stefano Marotta (pubblicata su Perigeon)

Se la poesia è l’atto di una parola che si offre nella gratuità del suo darsi e in essa trova la radice primaria del suo essere libertà e destino di libertà, quell’atto è essenzialmente amore, cioè apertura e sguardo, e le forme in cui il circuito di questo dono si attiva sono infinite, e interminabilmente incodificabili, esattamente come le forme in cui si presenta la vita.
Quale che sia la “forma” in cui si manifesta e si declina, quale che sia l’oggetto su cui si indirizza, per assorbirlo e/o lasciarsene assorbire, la parola amore mi ha sempre richiamato una suggestione maturata nella prima giovinezza, leggendo e rileggendo il Decameron, la madre di tutte le narrazioni (perché l’amore è racconto, récit, poème, teatro, dialogo, incontro): che si tratti di una forza metamorfica che fa tutt’uno con l’esistenza nella sua pienezza, di un movimento incessante che si manifesta in un sentire, sintomatico o strutturato, desiderante, che sottende una tensione interminata verso l’altro, verso quella diversità che sola dice il nostro nome, ci definisce come volti e voci, crea l’alfabeto e la mappa dell’interrogazione che ci dimora.

Non può amare, anche riempiendosene la bocca e sbandierandone le intenzioni ai quattro venti, e quindi non vive, chi ha cancellato l’alterità dalla visuale dei suoi giorni, chi non riconosce quell’assenza come uno spazio del suo essere, fisico e psichico, da colmare, da abitare – lasciandosene contemporaneamente colmare e abitare.

La poesia, a Suo parere, coinvolge in primo luogo la conoscenza o il sentimento?

Credo che la parola poetica possa dire tutto, e che in questo tutto si esprima un’assoluta libertà senza ragione, un’incessante scoperta di sensi altri, di suoni-voci-volti che aggiungono, ad ogni tappa della ricerca, nuove note e nuovi tasselli alla partitura e al mosaico interminabili dell’esistenza umana.
E’ un cammino di ordine sostanzialmente gnoseologico, se si vuole, ma tracciato su una mappa affatto inconsueta, fuori controllo e fuori dall’ordine di rotte predefinite, che ha come estremi skèpsis e hairesis, e nessun’altra finalità che non sia l’ascolto di quanto, insieme a noi, tracima in altre forme, senza certezze in merito a presunte verità assolute, date o da scoprire: un percorso alimentato e sorretto unicamente dall’eco dei passi, dall’eco che si fa fuoco di segni sulla pagina, dal fuoco che è il cuore pulsante di una interrogazione senza inizio e senza fine.
Il sentimento, allora, come qualsiasi altra istanza (emozionale, istintuale, intellettuale, sociale, politica, civile) non può essere estraneo a questo peregrinare, ma non può costituirne l’unica ragion d’essere: nel senso che se una poesia nasce intenzionalmente per commuovere, per dare libero sfogo a un bisogno, per convincere, per sostenere una tesi o quant’altro, essa semplicemente non-è-più in quanto tale: sarà un manufatto, un oggetto, una produzione, un testo apprezzabile per tanti versi e in tanti ambiti, ed anche di egregia sostanza, ideazione e struttura, perché no, ma non più poesia, in quanto l’intenzione, proprio quella espressa e non un’altra, escludendo il molteplice che è la totalità della sua natura plurale, le nega ogni statuto di esistenza.

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