Così, la nuova fatica in versi della bolognese Miriam Bruni, sembra voler spiazzare il lettore fin dall’inizio, partendo da un’inversione di “peso” nel rapporto fra testo e titolo. Se il secondo di solito tende ad inseguire una condensazione simbolica del primo, per metonimia o metafora esemplari, qui l’avverbio secco offre la sponda a una specie di azzeramento preventivo di ogni convenzione, o finzione di parola, intesa come struttura di logos depositata a svelare il Mondo, e ribadisce allo scopo l’attacco anaforico del primo testo della raccolta:
Così scoscesa, concisa, contesa. / Così cantata dal vento, cercata / dal pianto. / Così silente e sconcertante, / così suadente, così cangiante. / Così io sono, / così vi amo
Se da un lato la percussione asseverativa dell’avverbio rinvia a un’indifesa permeabilità del soggetto rispetto al mondo, “Così” galleggia a vista fin dalla copertina del libro come segnaposto esplicito di una specie di destrutturazione preventiva. Le pertinenze dell’io lirico sembrano restringersi in Bruni all’hic et nunc di quella che Zanzotto, sul versante di una laica e creaturale ontologia, chiamerebbe pura “notificazione di presenza”; e dalla quale deriva sulla pagina un duplice registro di risalita al senso, o al Senso, non senza attriti interiori, anzi, probabilmente in virtù di questi stessi attriti. Da una parte, la riaccensione silenziosa e ardente di un insistito atto di fede, che attraversa l’intera produzione della poetessa bolognese, e orienta il testo nel tono a mezza voce di una richiesta d’ascolto, di sponda riaperta alla certezza di un’Interlocuzione Celeste; dall’altra, l’elaborazione di oggetti linguistici chiusi, dal sapore spesso epigrammatico, regolati dall’emersione preverbale e contemplativa di quel primo flusso interiore quale atto ineludibile di avvicinamento all’Essere, refrattari quindi a ulteriori strutturazioni o ampliamenti:
Io nacqui tua, Poesia. / Però giurami, Dio, che non è / – non sarà idolatria.
Il che porta direttamente a una delle caratteristiche ricorrenti di questi versi, e cioè la commistione di registri stilistici talvolta assai divaricati, in qualche caso spiazzante:
Al fresco cielo dicembrino / votato ora all’arancione / ma senza stacchi bruschi / – senza presunzione; a lui mi stringo / per consolare il cuore
Il fatto è che la poesia stessa, nell’evocare una propria funzione di consonanza armonica col Tutto marcata dalla Fede, non può scendere a patti con l’edulcorazione o la contraffazione connotativa del gesto, prima che del testo, che la esprime. E tutto ciò che tocca l’umano, in Bruni, si riammanta di fatico candore, “consola il cuore” come un’urgenza non differibile di quiete senza orpelli o devianze formali che inarchino altrove il soggetto; oppure, ancora peggio, seminino indizi dell’idolatria di cui sopra, nelle crune dei grafemi spesi come reti di una pesca miracolosa del Sé. Fino a sperimentare improvvise rarefazioni e allargamenti delle maglie, e dar vita a accensioni folgoranti, come nei versi seguenti:
Ci sfiora le caviglie il tempo / e dopo / la sommità del capo / A cerchio / passando accanto agli arti – mandala / di un re dimenticato.
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